#TURESTIACASA, MA #IORESTONELCAMPO
Il rapporto #iorestonelcampo dell'Associazione 21 luglio sull'emergenza Covid19 nei campi rom, tra mancanza d'acqua e perdita del lavoro. E c'è un appello da firmare
24 Marzo 2020
«Non c’è acqua potabile». «Nessuno ha le mascherine, non si trovano». «Siamo abbandonati, nessuno ci dice niente, non sappiamo come fare». Sono solo alcune delle testimonianze raccolte dall’Associazione 21 Luglio all’interno delle baraccopoli istituzionali della città di Roma.
In queste ore di emergenza dettate dal coronavirus sono oltre 6mila le persone di etnia rom che nella Capitale vivono in condizioni igienico-sanitarie preoccupanti. Per loro, che una vera e propria casa non ce l’hanno, seguire le direttive del governo sull’isolamento è decisamente difficile, se non impossibile. Un quadro drammatico e allarmante, che l’associazione ha inteso definire con un’indagine dal titolo #IoRestonelCampo, condotta su cinque insediamenti monoetnici: i “villaggi” di via Cesare Lombroso, via Luigi Candoni, via dei Gordiani, via di Salone e Castel Romano. 24, in tutto, gli abitanti intervistati telefonicamente tra il 14 e il 17 marzo, per verificare l’impatto del decreto governativo IoRestoaCasa su quanti si trovano a vivere in emergenza abitativa.
#iorestonelcampo, purtroppo
«Ciò che è emerso con evidenza dall’indagine #IoRestonelCampo è il sovraffollamento non solo esterno, ma anche interno, con unità abitative rappresentate da container di pochi metri quadrati da condividere con molti membri della famiglia», spiega il presidente della 21 luglio Carlo Stasolla. «Anziani e bambini risultano essere la categoria più penalizzata e a rischio in questa condizione di isolamento».
Non solo: ad aggravare l’emergenza vissuta nei campi anche l’impossibilità, in buona parte dei casi, di praticare le misure atte a prevenire il contagio. «Oltre al rifiuto e alle fogne non sempre funzionanti, c’è il problema della disponibilità di acqua corrente», aggiunge Stasolla. «In via di Salone è piuttosto scarsa, mentre a Castel Romano l’unico approvvigionamento proviene da un’autobotte. Tutto ciò contrasta con le tante raccomandazioni ufficiali legate all’igiene personale». Altro fattore fortemente penalizzante è la mancanza di dispositivi di protezione e sicurezza: «Rispetto al contagio in molti si sentono più protetti all’interno dell’insediamento che fuori. Tuttavia, durante l’uscita, quasi tutti indossano dispositivi, spesso autoprodotti».
Un’emarginazione ancora più accentuata, rispetto a quella già vissuta quotidianamente, che porta con sé conseguenze cariche di problematicità. Tra queste, la perdita delle attività lavorative: «Le comunità rom vivono di lavori informali che garantiscono a malapena una sussistenza giornaliera», spiega ancora Stasolla. «L’impossibilità di svolgerli fa emergere, dunque, un problema legato alla sopravvivenza e alla mancanza di risorse». Ancora, in tempi di contagio, a venir meno è anche la solidarietà interna: «Nei campi si respira un clima di forte paura, sospetto e sempre più persone rischiano di non avere la sussistenza quotidiana», conclude il presidente. Tutto ciò rende l’emergenza ancora più contingente».
L’appello
Dai risultati dell’indagine #IoRestoNelCampo è nato l’appello online (si può firmare a questo link) rivolto al sindaco di Roma Virginia Raggi e al prefetto Gerarda Pantalone che vede, come prima richiesta, quella di garantire nelle baraccopoli romane la distribuzione di beni di prima necessità e condizioni igienico-sanitarie adeguate. Ancora, si invitano le autorità della Capitale ad assicurare la presenza di personale sanitario, incrementare la rete di volontariato sociale e, infine, predisporre per tempo adeguati piani sanitari da adottare in caso di positività all’interno di uno degli insediamenti.
I volontari per la prevenzione
Le attività del volontariato, infatti, sono diventate quasi impossibile e la presenza dei volontari si è rarefatta. A volte è persino difficile entrare nei campi. Tra le associazioni ancora attive c’è la Comunità di Sant’Egidio, impegnata in prima linea nella distribuzione di generi di prima necessità.
«Date le difficoltà legate agli spostamenti, abbiamo deciso di dislocare la distribuzione nei luoghi più facilmente raggiungibili. Tra questi, la parrocchia di San Gaudenzio a Torrenova», riferisce Daniela Pompei, la responsabile della Comunità per i servizi agli immigrati, rifugiati e Rom. «Ci rechiamo, poi, anche all’interno dei campi per cercare di intercettare i bisogni e le richieste delle tante famiglie che hanno bisogno di aiuto». Non solo: i volontari della Comunità sono anche molto attivi nel promuovere azioni di prevenzione dal contagio: «Stiamo preparando delle illustrazioni che ne facilitino la comprensione», prosegue Pompei. «Sarebbero estremamente gravi i rischi di un contagio nei campi».
Infine, la Comunità non dimentica i bambini: «Oltre a sostenerli nell’attività scolastica, abbiamo riattivato, in collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il servizio di unità mobile per l’assistenza sanitaria», conclude la responsabile. «Oggi più che mai è necessario rivolgere un’attenzione particolare alle categorie più fragili».