LA NOTTE IN CUI TUTTE LE VACCHE SONO NERE. E ANCHE IL NON PROFIT
Seconda puntata dell'inchiesta di Fabrizia Bagozzi sul lavoro sociale dopo Mafia Capitale, tra regole che mancano e regole che strozzano
19 Novembre 2015
Prosegue l’inchiesta di Fabrizia Bagozzi. Puoi trovare la prima puntata qui.
Celio Azzurro, Well-farecomunità, Pinco Pallo. Fotogrammi romani scelti a caso fra i molti che saltano agli occhi in una delle stagioni forse più difficili per chi fa lavoro sociale dal basso e si trova a subire il doppio contraccolpo della continua e crescente riduzione di risorse (che ha coinvolto in modo significativo anche la spesa sociale di Roma) e delle varie ricadute di Mafia Capitale. A partire dall’immagine pubblica. Qui non sono pochi i danni che la parabola di Salvatore Buzzi ha generato per le piccole o medie cooperative e associazioni di cui, a scorrere i bilanci, è piuttosto difficile sostenere che facciano affari (tanto meno illeciti) e che – pur con mille limiti e con tutti i difetti conclamati di un mondo destrutturato, litigioso, a volte settario e a tratti approssimativo – mettono le persone fragili al centro del loro fare. Se i capi di imputazione venissero confermati dall’iter processuale, ma addirittura forse a prescindere dalle risultanze giudiziarie, la vicenda narra di un “cattivo”, che si redime in carcere e diventa “buono” fondando, a partire da sé e dalla sua storia, una cooperativa che punta a reinserire nella società altri “cattivi” che così possono diventare “buoni”. Ma poi Buzzi torna “cattivo” e per di più nell’occuparsi di cose “buone” per definizione: il reinserimento sociale dei detenuti e delle persone con fragilità, l’accoglienza dei migranti. Da questo punto di vista la tristemente famosa frase dell’ex presidente della Cooperativa 29 giugno: «Gli immigrati rendono più della droga» è veleno puro per il Terzo settore e la sua immagine.
Traditi due volte
La gente si sente tradita due volte. La prima, perché si tradisce la speranza nella “redenzione”, nel “recupero” (tradotto in senso comune, che molto conta per la politica a caccia di consenso: se i “cattivi” non si redimono perché investire risorse per provarci? Tanto vale buttare la chiave); la seconda perché si tradisce il sogno che esistano ancora dei “buoni” a tutto tondo. I professionisti del disincanto ci vanno a nozze, i realisti lo sapevano già. Ma se pure i “buoni” sono “cattivi”, non ci si può più fidare di nessuno. E, soprattutto non ci si può affidare a nessuno.
E così, anche se su circa duemila cooperative che si occupano di lavoro sociale a Roma non più di una ventina risultano coinvolte in Mafia Capitale, il timore che serpeggia fra gli operatori è di finire, nel famigerato immaginario collettivo, in quella che il Filosofo definiva «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Dando alibi e fiato a quanti puntano a rendere residuale, culturalmente prima che politicamente, un’idea di servizi sociali lontana anni luce dal solidarismo compassionevole tanto amato dal liberismo della beneficienza (sostenuto anche da certa politica à la Tremonti). O da un’idea di welfare usa e getta, che rischia di prescindere dalle persone con fragilità per le quali il sostegno all’autonomia – e autonomia alla lunga vuol dire anche risparmio perché punta a mettere le persone stesse nelle condizioni di fare da sé e dunque di uscire dalla logica assistenziale – richiede processi: e dunque presenza, accompagnamento, sostegno nel tempo. Cioè una parte determinante dell’operare di quelle piccole e medie cooperative o associazioni, pur con tutti i conclamati difetti sui quali, peraltro, da qualche tempo si è aperto un dibattito per nulla indolore anche al loro interno.
Regole si’, ma quali?
Ma c’è una seconda questione che mette in allarme chi opera nel sociale, ed ha a che fare con le regole. Ed evidentemente non perché non ci debbano essere. Ma perché il loro continuo aggiramento a proprio vantaggio ad opera del clan di Mafia Capitale (segmenti politici ed amministrativi compresi: in questo senso l’inchiesta condotta dal procuratore Giuseppe Pignatone e i documenti desecretati degli ispettori inviati dal prefetto Franco Gabrielli parlano chiaro), ha portato, a piena garanzia della legalità e della trasparenza, non solo a una rigorosa applicazione di quelle vecchie ma anche alla produzione di nuove che, lamentano gli operatori sociali, non tenendo sufficientemente conto delle particolari caratteristiche di questo tipo di lavoro, rischiano di metterlo in difficoltà. Nello specifico – fanno notare – all’indomani della prima tornata di arresti per Mafia Capitale e conseguente rimpasto nell’esecutivo capitolino, la direttiva della Giunta comunale del gennaio 2015 in materia di contratti e appalti (firmata dall’allora assessore alla legalità Alfonso Sabella) e soprattutto la più recente proposta Sabella di regolamento dei contratti (approvata all’unanimità dalla Giunta Marino ma non dal consiglio comunale per sopravvenuto commissariamento) vengono prodotte e si intendono da applicare a tutti i contratti e a tutti gli appalti, a tutti i beni e a tutti i servizi. Inclusi quelli che hanno a che fare con il lavoro sociale – che del resto è proprio quello coinvolto (e travolto) da Mafia Capitale. La quale, però, ha trovato terreno fertile ed è proliferata nelle emergenze, che hanno lasciato porte aperte alle note forme di discrezionalità negli affidamenti.
Lo specifico del lavoro sociale
Spiega Carlo De Angelis, consigliere nazionale del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca) e portavoce del Social Pride (un cartello di quaranta fra associazioni e cooperative con una lunga tradizione operativa a Roma): «Siamo i primi a volere che nel nostro settore si operi nella legalità e che ci siano regole forti e definite a impedire il ricrearsi del sistema che ha prodotto Mafia Capitale, un sistema che ci ha danneggiati. Ma nel produrle e nell’applicarle, occorre tenere conto di che cosa è un servizio sociale, delle sue caratteristiche, della sua natura. Noi non produciamo pneumatici e non offriamo servizi di trasporto. Come si può vedere nella legge 328 del 2000, che regola il settore e a cui del resto anche l’Autorità anticorruzione fa riferimento. Quella legge parla di progettazione e realizzazione concertata fra pubblico e privato sociale e mette al centro la produzione di relazioni di aiuto e l’utilità sociale». Facciamo un esempio? «Facciamo un esempio: una cooperativa che si occupa di manutenzione del verde pubblico reinserendo ex tossicodipendenti o ex detenuti o persone con disabilità mentale in una data zona, lo fa in accordo con i servizi di quella zona che seguono le persone in reinserimento, con percorsi calibrati sui loro bisogni per accompagnarli all’autonomia, sviluppando e gestendo una relazione il più possibile aperta con il quartiere». Cose che chiedono tempi lunghi, continuità, operatori con competenze precise, conoscenza dei territori in cui si opera, perché l’obiettivo non è solo curare bene giardini e aree verdi, ma emancipare e rendere autonome persone in difficoltà: portarle passo dopo passo a camminare con le loro gambe. Sono processi che hanno a che fare con soggetti fragili, con i loro tempi e modi e che dunque «faticano a conciliarsi con il principio della rotazione degli affidamenti, degli stringenti limiti temporali e del primato della concorrenza che pure in altri settori possono risultare imprescindibili». Quando si parla di servizi o attività sociali, chiosa De Angelis, il vantaggio della Pubblica amministrazione «non risiede nella rotazione o nel risparmio tout court, ma nell’efficacia dell’azione di servizio alla persona e alla comunità o nel reinserimento sociale e lavorativo».
L’incubo del sorteggio
Il regolamento Sabella. Qui il portavoce del Social Pride si riferisce alla proposta di regolamento Sabella che il commissario di Roma, il prefetto Francesco Paolo Tronca potrebbe ora teoricamente decidere di applicare con decreto. Chiarisce De Angelis che in quel testo l’ex assessore alla legalità riconosce in qualche modo una particolarità del lavoro sociale «nel prevedere in questo ambito procedure negoziate, una sorta di bandi riservati». E stabilisce che associazioni e cooperative iscritte in appositi registri comunali (e dunque in sostanza già inserite in una qualche forma di “accreditamento” e per i servizi cosiddetti «essenziali» secondo la legge 328 del 2000, cioè i servizi alla persona) e cooperative di tipo b (reinserimento lavorativo di persone in difficoltà), anch’esse iscritte in appositi registri comunali, possono partecipare alle gare. Ma «l’affidamento dei servizi avviene appunto per sorteggio, addirittura informatizzato, e a rotazione. E ciò vuol dire che non è detto che la cooperativa che opera da anni in un quartiere e ne conosce esigenze, caratteristiche, bisogni e servizi pubblici venga sorteggiata. E anche se fosse, alla scadenza del bando non può partecipare a quello successivo. Con tanti saluti al lavoro fatto fino a quel momento, ai processi di emancipazione e alle relazioni attivate con le persone da reinserire, con i cittadini del territorio e con i suoi servizi».
Il punteggio 60/40
Inoltre, la direttiva di Giunta di gennaio, oltre a sancire una volta per tutte la fine dell’opaco sistema delle proroghe (o quantomeno, essendo un atto di indirizzo, a consigliarla caldamente), stabilisce che in linea di massima il criterio di assegnazione dei bandi per progetti presentati da associazioni e cooperative non “accreditate” (per le quali non ci sono registri comunali) e dunque per un certo tipo di servizi (semplificando: decisivi ma non «essenziali» come da legge 328 del 2000) deve seguire il rapporto 60/40. Ovvero: le proposte devono essere valutate attribuendo il 60 per cento alla qualità del progetto e il 40 per cento all’offerta economicamente più vantaggiosa. Che non va confusa con il massimo ribasso, ma, nota De Angelis, «se, nel valutare un progetto, alla parte economica si attribuisce il 40 per cento, può finire che vinca non il progetto migliore, e dunque quello che risponde meglio a bisogni o a sperimentazioni utili nella produzione dei servizi, ma quello economicamente più vantaggioso». Per il Social Pride un modo per tenere insieme legalità, trasparenza e specifico dei servizi sociali è «guardare alle modalità di affidamento che caratterizzano il sistema sanitario: autorizzazione al funzionamento, accreditamento e convenzioni. Un modo per ridurre nettamente l’area delle proroghe, dei rinnovi, degli affidamenti diretti». In linea con le osservazioni del Social Pride si collocano anche la Cgil e le Acli, con la presidente provinciale Lidia Busi: «Sui principi di legalità e trasparenza non si discute, ma occorre non dimenticare che il Terzo settore è e deve essere ritenuto un attore dei processi e dei servizi sociali e non un semplice esecutore».
La consultazione dell’Anac
E mentre il grosso del mondo del sociale romano prova ora a rilanciare un confronto sulle regole, ritenute «sacrosante» da chi peraltro si è costituito parte civile nel processo Mafia Capitale attraverso il Forum del Terzo settore del Lazio, alla consultazione on line lanciata dall’Anac sulle linee guida per l’affidamento dei servizi sociali agli enti del Terzo settore scaduta il 10 settembre scorso hanno risposto “solo” in 23. “Solo” perché all’appello si sono presentate importanti realtà di quel mondo fra cui, per esempio, l’Alleanza delle Cooperative sociali italiane e il Forum del Terzo Settore. Ma manca la stragrande maggioranza dei comuni e i “piccoli” del non profit. Fra i rilievi critici rivolti alle linee guida dell’Autorità anticorruzione risultano però anche la rotazione fra gli affidatari dei servizi e i tempi stretti degli affidamenti. L’Anac deciderà.
Ma, alla fine, a Roma, quali regole si applicheranno? E, in attesa che sulla scena torni la politica, sarà la stagione prefettizia a sancirle?
(seconda puntata, segue)