LA QUARTA COMPAGNA. PER TUTTE LE DONNE RESISTENTI

La quarta compagna, il romanzo di Orsola Severini, è ispirato alla storia vera di Isolina (Lina) Morandotti. È un omaggio alle tante donne combattenti italiane che durante il fascismo e per tutto il Novecento hanno lottato per difendere il proprio senso di giustizia

di Maurizio Ermisino

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«Erano due anni che cascavamo nelle reti fasciste, l’uno dopo l’altro, come mosche. Proprio per questo ci eravamo divisi in piccole “cellule”, non più di cinque o sei persone, i compagni delle altre cellule non sapevamo chi fossero, così non li potevamo danneggiare. Sapevamo solo che erano lì fuori e che ci avrebbero sostituito quando saremmo caduti, come noi avevamo sostituito chi era caduto prima di noi. Resistere, resistere, resistere fino a quando sarebbe arrivata la rossa primavera… E così ogni giorno ricucivamo gli strappi, riparavamo i nostri organi vitali, ridisegnavamo le mappe e le reti, adattandoci a nuove minacce, alla mancanza di mezzi, spinti dalla consapevolezza che l’unica via fosse una risoluzione stremata ma tenace, una fiamma che traballava su un moccolone di cera. Flebile, ma pur sempre fiamma nel buio della notte più nera». È un passo, emozionante de La quarta compagna (Fandango Libri), romanzo di Orsola Severini ispirato alla storia vera di Isolina (Lina) Morandotti. È un omaggio alle tante donne combattenti italiane che, durante il fascismo e per tutto il Novecento hanno lottato per difendere il proprio senso di giustizia. A costo di perdere tutto ciò che avevano. Ne La quarta compagna, Lina diventa Ada, attivista del Partito Comunista, che nei primi anni del regime fascista collabora alla diffusione dell’Unità e raccoglie fondi per il partito, fino a che la sua casa viene perquisita e lei arrestata. Orsola Severini racconta questa storia in prima persona, con una prosa vibrante, un realismo doloroso che fa sentire sulla propria pelle il senso di frustrazione e di rabbia per la mancanza della libertà, psicologica e fisica. Le descrizioni sono intense, dettagliate, come se il libro fosse un’autobiografia, e chi scrive avesse vissuto tutto in prima persona. È un “romanzo storico”, dove la storia di Ada si unisce a quella di grandi della Storia, come Gramsci. Frutto di un grande lavoro di documentazione e dell’intensità di scrittura dell’autrice.

La quarta compagna
Orsola Severini: «Mi piaceva la storia di una vecchietta di provincia che ha fatto una vita eccezionale e ha avuto un coraggio che era gratuito: se lo sentiva dentro, la sua militanza non è stata una scelta»

 La quarta compagna è una storia vera. Come l’ha trovata e come ci è entrata così bene?
«Durante il lockdown avevo letto un articolo sui manicomi durante il fascismo, sul fatto che l’elettroshock fosse un’invenzione italiana di quel periodo. Mi sono appassionata a questa realtà e ho scoperto che il manicomio è stato un luogo di prigionia per antifascisti. In un libro, I matti del Duce (Donzelli, 2014), c’era la storia di Lina, che era l’unica donna. E alcune cose non quadravano: la perizia psichiatrica la descriveva come una donna molto semplice, poco più che analfabeta, che si era fatta trascinare. Altre fonti dicevano invece che aveva delle responsabilità nella rete antifascista. Così ho fatto un po’ la detective: ho cercato negli archivi del manicomio e della polizia, all’Istituto Gramsci e negli archivi del partito. E trovavo incredibile che nessuno avesse mai raccontato questa storia. La prima parte del lavoro, in giro per l’Italia, è stata lunga. Alcuni periodi non erano coperti dalle fonti. Volevo farne qualcosa, così ho deciso di scrivere un romanzo: mi sono sentita chiamata, come se fossi ossessionata da lei. Ho provato a scriverlo in terza persona, ma non mi piaceva, così ho usato la prima persona».

 Il libro inizia con Ada ormai anziana, e il racconto parte dall’osservazione delle mani….
«Il fatto che dopo la guerra abbia vissuto come una persona comune e il fatto che fosse una storia sconosciuta mi hanno dato l’idea di un’Ada vecchia, alla fine della sua vita, che racconta a se stessa questa storia non raccontata. Quando leggevo alcuni articoli su di lei mi chiedevo: “come fa ad essere ancora viva? Come ha fatto a uscirne?” Finiva in carcere, in manicomio, poi di nuovo in carcere. Ma poi ha fatto una vita normalissima, ed è morta ad ottant’anni nel suo letto. Mi piaceva la storia di una vecchietta di provincia che ha fatto una vita eccezionale e ha avuto un coraggio che era gratuito: se lo sentiva dentro, la sua militanza non è stata una scelta. Il suo modo di fare politica e resistenza è molto istintivo».

La detenzione, la privazione della libertà, sono descritte benissimo. Come ha lavorato per ricostruire quei momenti?
«Preparando la stesura avevo letto delle biografie di resistenti, come Giorgio Amendola e Camilla Ravera. Loro erano militanti intellettuali che non sono mai stati picchiati, non hanno mai subito violenze fisiche. Gramsci è stato torturato psicologicamente, con sveglie nella notte e altre angherie, ma mai botte. Anche nel trattamento che gli antifascisti ricevevano c’erano delle dinamiche di classe: era importante dire che non tutti sono stati trattati allo stesso modo. In una piccola autobiografia, Lina parlava di quella caserma a Bardonecchia, un luogo reale, in cui era stata torturata in modo indicibile e dove le era stato spezzato l’anulare sinistro perché non avrebbe dovuto fare politica in quanto donna. Che è qualcosa che nella sua storia torna sempre. Ci sono cose vere, altre immaginate, come quando parlo dell’ora d’aria, ma sono plausibili, perché ho incrociato il suo con racconti di altri resistenti».

Nella descrizione dei poliziotti fascisti e del loro atteggiamento verso le donne c’è il racconto di un maschilismo antico e tossico, duro a morire. È tipicamente fascista, ma anche trasversale…
«Il regime fascista è l’apoteosi del regime patriarcale. Anche il fatto che non si potesse più dare del “lei” è un sintomo inequivocabile. Anche tra tanti comunisti c’era un maschilismo che magari non era consapevole. Camilla Ravera scriveva che si doveva fasciare i seni per non essere troppo femminile. Tutte le militanti comuniste hanno rinunciato alla loro femminilità e hanno dovuto rinunciare ad avere una famiglia. L’unica eccezione era Gramsci, che aveva uno spirito aperto: aveva scritto sulla questione femminile, e il suo scritto ancora oggi è molto attuale, e i racconti dicono che aiutava a lavare i piatti. Ada non aveva una visione binaria del mondo, né di genere né di classi sociali. Era la società che le rimandava questa immagine. Nel libro c’è il racconto in prima persona, alternato alle fonti: c’è quello che dice di sé e lo sguardo della società su di lei».

In un passo del libro si parla dell’importanza, in cella, di avere compagne di cella e compagne di fede…
«C’è anche una storia di sorellanza con altre compagne. Quando sei agli arresti la cosa peggiore è essere in isolamento. Nel momento in cui si può parlare con altre persone tutto diventa più facile. Questo è vero anche per gli uomini: leggendo gli scritti di Amendola, quando era a Formia con i compagni, capiamo che stava meglio per il solo fatto di non essere solo».

C’è un che di fisiognomico nel ritratto di alcuni fascisti: quel giudice che somiglia a un ratto è un simbolo?
«È realmente esistito. È stato il giudice istruttore di Gramsci e della mia protagonista, che sono stati incarcerati a San Vittore nello stesso momento. Questo giudice viene descritto come un roditore da Ruggero Giacomini in un saggio sul processo a Gramsci. E da lì ho avuto l’idea di fare di lui la personificazione del fascismo, che non si sporca le mani, è subdolo, non ha un vero ideale e vuole solo imporsi. È una figura molto viscida. Ed è vero che ha continuato a fare il giudice nel dopoguerra. Non sapevo che questa continuità istituzionale fosse così estesa. C’è stata un’epurazione tra liberi professionisti, avvocati e giornalisti. Ma chi aveva una copertura istituzionale spesso ha continuato. Pensare alla fine che ha fatto Gramsci e al fatto che certi personaggi sono rimasti è terribile».

Nel libro c’è anche una riflessione sul manicomio, un luogo dove non si entra mai veramente matti ma, a forza di starci, lo si diventa…
«Per descrivere il manicomio ho avuto accesso a cartelle cliniche del periodo del fascismo, non solo a Milano ma anche a Roma, a Santa Maria della Pietà. Le diagnosi di ingresso sono incredibili: “ballava per strada”, “non si voleva sposare”. Era molto facile per le donne entrare in manicomio, bastava un certificato del medico di famiglia. È incredibile perché almeno in carcere, anche durante il fascismo, c’era una parvenza di processo. In manicomio finivi lì e la tua voce non contava più nulla. Sono tante le vite spezzate lì dentro, anche di bambini che sono nati in manicomio».

Il libro si apre con una frase di Lucie Aubrac: il verbo resistere deve sempre essere coniugato al presente. Qual è il senso di queste parole?
«Credo ci sia la Resistenza storica, quella della guerra mondiale. Ma che ci siano anche tante resistenze che sono d’attualità in Italia e in altre parti del mondo. Pensiamo alla Palestina. In Italia oggi i resistenti sono i medici che fanno obiezione di coscienza. Ci sono tante resistenze attuali. D’altra parte la parola resistente è un participio presente».

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La quarta compagnaLa quarta compagna
Orsola Severini
Fandango Libri, 2024
pp. 176, € 16

LA QUARTA COMPAGNA. PER TUTTE LE DONNE RESISTENTI

LA QUARTA COMPAGNA. PER TUTTE LE DONNE RESISTENTI