LA RETE NON CI SALVERÀ. PERCHÉ LA RIVOLUZIONE DIGITALE È SESSISTA…
...E come resistere. Nel libro di Lilia Giugni il tema della violenza di genere digitale, l’intreccio tra tecnologia, patriarcato e capitalismo e l’impatto di questa relazione sulle vite delle donne in tutto il mondo
15 Settembre 2022
Secondo stime recenti, più di un terzo delle donne del pianeta ha subito violenze digitali almeno una volta nella vita: minacce, molestie, condivisione di contenuti privati senza consenso. «Tanto la politica quanto l’industria tech hanno enormi responsabilità nel diffondersi della violenza di genere digitale», dice Lilia Giugni, autrice del libro La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere) (Longanesi Editore), ricercatrice e docente presso l’Università di Cambridge, attivista femminista intersezionale.
Nel suo pamphlet definisce la rivoluzione digitale il fenomeno forse più significativo degli ultimi trent’anni e lo analizza attraverso gli occhi delle donne che, in tutto il pianeta, ne pagano caro il prezzo. Come nasce l’idea di questo libro?
«Nasce dal mio impegno di ricercatrice e attivista su questi temi, iniziato circa cinque anni fa. In particolare, lavoro da un bel po’ sul tema della violenza di genere digitale, inizialmente la mia idea era di scrivere specificamente di questo argomento, cioè degli abusi sessisti che si consumano in rete, e del sistema economico che ne trae profitto. Nel tempo, però, mi sono convinta che fosse necessario andare più a fondo ed esplorare ingiustizie di genere che riguardassero l’intero ciclo di produzione delle tecnologie digitali. Così ho finito per scrivere un libro che guarda all’intreccio complesso e insidiosissimo tra tecnologia, patriarcato e capitalismo, e all’impatto di questa relazione sulle vite delle donne in tutto il pianeta».
Nell’introduzione parla di Carolina e di Yu…
«Le storie di Carolina Picchio e Tian Yu esemplificano perfettamente il passaggio di cui ho appena parlato. Carolina, un’adolescente novarese, si è gettata dalla finestra qualche anno fa dopo esser stata molestata da alcuni coetanei, che si erano filmati con i loro smartphone e avevano poi diffuso il video delle molestie online. Yu, una giovane operaia cinese di appena tre anni più grande di Carolina, è anche lei saltata giù da una finestra. Solo che lo ha fatto dopo mesi di lavoro in condizioni disumane in una fabbrica che produceva smartphone non dissimili da quelli dei persecutori di Carolina.
Credo che i punti di contatto tra queste due vicende ugualmente tragiche ci dicano tante cose, e ho sentito il bisogno di spiegare che, appunto, dietro alle tecnologie che oggi vengono utilizzate per violare donne e ragazze come Carolina c’è una intera filiera di produzione che sfrutta e schiaccia donne e ragazze come Yu. In altre parole, abusi e ingiustizie si celano sia da una parte che dall’altra dello schermo ed è importante indagare le connessioni tra questi due aspetti».
Può spiegarci il filo invisibile che consiste nella relazione distruttiva tra la tecnologia, il capitalismo ed il patriarcato?
«Il patriarcato e il capitalismo sono, a mio modo di vedere, due delle più potenti “logiche” secondo cui da secoli organizziamo il nostro modo di vivere. Va detto che meccanismi patriarcali e capitalisti si sono a lungo intrecciati nel tempo e nello spazio. Basti pensare, per esempio, a come l’economia di tanti paesi si sia storicamente retta sul lavoro di cura non retribuito delle donne. Più singolare può forse apparire l’accostamento di un qualcosa di apparentemente concreto e “materiale” come la tecnologia alla logica patriarcale e a quella capitalista. È, invece, importante ricordare che le tecnologie non sono mai politicamente neutre, e che incorporano, riflettono e amplificano le disuguaglianze e le ingiustizie delle società in cui vengono sviluppate. Difatti, il mio libro parla proprio di come i tratti patriarcali e capitalisti della nostra società siano incisi a lettere di fuoco nelle nostre tecnologie digitali: nel loro funzionamento, nella loro distribuzione e nel loro sistema di produzione».
Scrive che “l’odio on line è oggi adoperato metodicamente da personalità e organizzazioni di ogni colore politico” e che “abbiamo da porci dei seri interrogativi sulle nostre aspettative nei confronti degli attuali establishment politici”…
«Sì. Ne La rete non ci salverà parlo molto di come la violenza di genere online venga spesso usata come una strategia di costruzione del consenso politico. Scrivo, ad esempio, delle campagne di intimidazione ai danni di donne attive in politica e in particolare di attiviste femministe. Scatenando l’inferno contro la donna di turno, tanti operatori politici mirano, infatti, a compattare i propri seguaci online e a mantenerli in uno stato di mobilitazione permanente. Di questo espediente si sono serviti con successo tanti ultraconservatori, da Trump a Salvini, da Bolsonaro a Putin. Ma non mancano esempi di questa risma lungo tutto l’asse politico. Né le grandi piattaforme digitali sono mai intervenute con reale efficacia per arginare il fenomeno. In altre parole, tanto la politica quanto l’industria tech hanno enormi responsabilità nel diffondersi della violenza di genere digitale».
Può regalarci una “pillola” dei dieci modi di riformare e resistere del Capitolo nove del suo pamphlet?
«Posso anticipare un paio di punti fondamentali. Primo, io sono convinta che la regolamentazione della rete, e in particolar modo delle piattaforme digitali, non sia più rimandabile, e che le corporation del settore vadano responsabilizzate sia verso la loro utenza che verso i lavoratori e le lavoratrici coinvolti nel ciclo di produzione della tecnologia. Un altro provvedimento a mio parere non più prorogabile è la rottura dei grandi monopoli che sono venuti a formarsi nell’industria tech: un fattore cruciale negli abusi che si consumano sia online che offline. Credo anche che sia arrivato il momento di considerare delle serie politiche di tassazione delle grandi aziende digitali, secondo la logica “chi fa danni paga”, e di utilizzarne i proventi per sostenere interventi redistributivi anche, e soprattutto, a vantaggio delle donne danneggiate da sviluppi tecnologici e di vari gruppi sociali vulnerabili. Infine, posto che per mestiere faccio la docente universitaria, e quindi l’educatrice, e per passione faccio l’attivista femminista, non posso non concludere dicendo che abbiamo anche un gran bisogno di due cose: educazione digitale e mobilitazioni femministe. Da un lato, ci servono interventi educativi a tutti i livelli, che rendano le persone e le comunità più consapevoli dei loro diritti digitali. Dall’altro, quando mi dicono: “hai scritto un libro intitolato “La rete non ci salverà”, chi allora possiamo aspettarci che ci salvi?”, io normalmente rispondo che ci salveranno i movimenti per la giustizia sociale e la giustizia di genere. Perché è proprio da questi movimenti dal basso, fervidi di idee e di pratiche feconde, che possono partire visioni di tecnologie e società genuinamente diverse e migliori».
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Lilia Giugni
La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere)
Longanesi Editore
pp. 250, € 19 euro