LA SALUTE È UN DIRITTO ANCHE IN CARCERE. ECCO COME TUTELARLA

Emanuela Falconi racconta come l'emergenza è stata affrontata nel carcere di Velletri. Ma serve un piano complessivo

di Fabrizia Bagozzi

Emanuela Falconi, ematologa di formazione, dirige l’Unità Operativa Semplice Dipartimentale per la Sanità Penitenziaria dell’Asl Roma 6 ed è vice-presidente dell’associazione di volontariato CONOSCI, il Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane che lavora, fra l’altro, nella formazione del personale sanitario e degli operatori socio-sanitari. Una lunga esperienza nell’ambito della sanità in carcere, oggi si occupa della salute dei 600 detenuti del carcere di Velletri, dove, spiega, «l’amministrazione penitenziaria ha ceduto alla Asl 22 locali e ci sono 13 ambulatori, anche specialistici».

 

Emanuela Falconi dirige l’Unità Operativa per la Sanità Penitenziaria dell’Asl Roma 6 ed è vice-presidente dell’associazione CONOSCI.

Il Coronavirus si è inserito in un quadro già difficile. I dati del Dap, appena usciti, parlano di 54mila detenuti, rispetto ai 61mila di febbraio. Ma le carceri italiane rimangono comunque troppo piene e, in un recente dossier, il sindacato di polizia penitenziaria sottolinea che 2 detenuti su 3 sono malati.
«Alcuni anni fa il Lazio ha partecipato a uno studio epidemiologico che coinvolgeva 5 regioni italiane. Emerse, tra l’altro, che il 70% di chi è in carcere ha una patologia, che in molti casi è di tipo psichiatrico o lo lambisce. Mi riferisco a forme di ansia, depressione, disadattamento, che il carcere acuisce o che vengono determinate dalla condizione carceraria. Sui soggetti che manifestano questi sintomi, come ho potuto riscontrare in que-sti mesi, il Covid-19 ha fatto da amplificatore».

Si parla di 133 positivi fra i detenuti, 200 fra gli agenti di polizia penitenziaria e 2 decessi in tutta Italia. Quale è stata la situazione della salute nelle carceri in piena emergenza?
«Dati ufficiali definiti ancora non ce ne sono. Noi operatori sanitari, insieme alle direzioni di istituto e alla polizia penitenziaria, ci siamo trovati a dover declinare rapidamente i decreti e le misure che si susseguivano in un contesto molto particolare come quello carcerario, e non è stato semplicissimo. Banalmente: chiudere l’ambulatorio di un Distretto non è come intervenire in quello di un carcere, perché i detenuti hanno esigenza di scendere in in-fermeria anche solo per prendere un farmaco da banco. A Velletri abbiamo contenuto le visite meno urgenti, che avvengono su prenotazione, e incrementato invece, per le urgenze, il numero dei medici durante la giornata, per fare in modo che non ci fossero file negli ambulatori e siamo riusciti a continuare, rispettando le misure di sicurezza, prelievi ed esami. Non sono mai mancati a noi, alla polizia penitenziaria e ai detenuti i dispositivi di protezione individuale. Più in generale, c’è stata la necessità di chiudere i colloqui con le famiglie e la cosa ha avuto un forte impatto. Le rivolte si sono dovute anche a questo».

Rispetto ai dispositivi di protezione individuale immagino che sul pia-no nazionale non sia stato sempre così.
«Non ho elementi di quadro. Posso ipotizzare una situazione a macchia di leopardo, legata a specifiche situazioni».

Quali sono stati problemi più stringenti da affrontare dal punto di vi-sta sanitario? Chi si occupa di carcere fa notare che una delle questioni è stata reperire spazi per consentire la quarantena ai positivi e garantire la sicurezza di tutti.
«A Velletri, con il direttore dell’istituto di pena abbiamo individuato stanze per isolare chi mostrava sintomi che potessero prospettare la malattia. Su tutti i nuovi ingressi abbiamo fatto i dovuti screening, il pretriage. Nei casi sospetti abbiamo predisposto l’isolamento e eseguito i due tamponi. E a oggi non c’è alcun positivo. Sul piano nazionale è possibile che sia stato difficile individuare spazi appositi: non tutti gli istituti li hanno. Attualmente mi risulta che alcune carceri non accettino nuovi detenuti prima che abbiano effettuato i tamponi».

C’è qualche episodio che in questi mesi l’ha colpita particolarmente?
«Guardi, la situazione di chi viene arrestato è già di per sé complicata, soprattutto se si tratta del primo arresto. Sono casi in cui si evita l’isolamento, che può essere pericoloso. A volte non è stato possibile evitarlo, proprio per ragioni di tutela della salute, ma la sofferenza psicologica aumenta. E poi fino a quando non è stata attivata Skype, l’impossibilità di vedere le famiglie ha avuto una ricaduta pesante sui detenuti. Ma anche quando è stato possibile usare Skype, non tutti familiari avevano gli strumenti per accedere: nessun tablet, nessun pc, magari solo un telefono con una connessione insufficiente. E questo vale anche per gli stranieri. Un quadro aggravato dal fatto che molte attività, penso alla scuola, ai laboratori di pittura, alle attività formative, si sono bloccate».

 

salute nelle carceri
Il carcere di Velletri

Come va affrontata la fase 2? Servirebbe un Piano complessivo per superare l’emergenza e convivere con i cambiamenti dettati dal virus? Le associazioni ritengono comunque necessario un alleggerimento dei numeri, per evitare che il carcere diventi un luogo di propagazione.
«Sarebbe importante varare un Piano che si articoli secondo alcune priorità. La prima: individuare forme di protezione che facciano in modo che chi arriva dall’esterno non porti il contagio. Questo vale per gli operatori sanitari e la polizia penitenziaria, ma anche per le famiglie. È fondamentale che ripartano i colloqui, ma devono ripartire in modo “sicuro”. Ci vuole poi la continuità dei dispositivi di protezione individuale e la disponibilità di test sierologici e tamponi. So che la Regione Lazio sta lavorando su questo e per quanto riguarda il carcere di Velletri sono già in programma test sierologici per tutti i sanitari i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria.
E poi, in sicurezza, vanno ripresi i laboratori, la formazione, le attività che supportano chi è in carcere. Quanto all’affollamento: peggiora sempre le cose, anche a prescindere dal Covid-19».

A proposito di affollamento. Le cifre rimangono alte, ma i dati rilevano 7000 detenuti in meno nei due mesi del lockdown. Secondo lei preché?
«Per lo sforzo della Magistratura, che ha deciso di applicare le misure consentite. Per esempio dare licenze straordinarie a chi già fruiva del beneficio della semilibertà, concedere gli arresti domiciliari considerando tutti gli stati patologici che esponevano a rischio maggiore di contagio con conseguente pericolo di vita e anche scarcerare i detenuti con più di 70 anni. In questo periodo ci sono infatti arrivate moltissime richieste di relazioni sullo stato di salute di questi pazienti».

Alcune scarcerazioni legate al Covid-19 hanno generato polemiche e sono un caso politico. Una questione delicata che tocca direttamente il tema della tutela del diritto alla salute: di tutti, anche dei detenuti. Lei che cosa ne pensa?
«La salute è un diritto di tutti, e in relazione alle polemiche credo bisognerebbe conoscere nel dettaglio ogni vicenda, caso per caso. Ogni singola situazione dev’essere comunque approfondita».

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