LAVORO, CONOSCENZA E UNA “DOTE” PER I 18ENNI. PER UN FUTURO PIÙ GIUSTO

Siamo un Paese bloccato, in cui le disuguaglienze crescono e da cui i giovani scappano, ma cambiare si può. Intervista con Patrizia Luongo

di Fabrizia Bagozzi

Un futuro più giusto. Che non è il libro dei sogni, ma una strada perseguibile mettendo in fila una serie di politiche la cui necessità è stata evidenziata, una volta di più, dall’emergenza Coronavirus. Lo spiegano Fabrizio Barca e Patrizia Luongo in una pubblicazione da loro curata per i tipi del Mulino. Un testo che nasce nell’alveo di quella fucina di idee e proposte che è il Forum Diseguaglianze Diversità – animato dall’ex ministro della coesione territoriale – e che s’intitola esattamente così: “Un futuro più giusto, rabbia, conflitto e giustizia sociale”. Ne parliamo con Patrizia Luongo, economista, già consulente dell’Ocse, della Banca Mondiale e dello Human Development Report Office delle Nazioni Unite.

 

un futuro più giusto
Patrizia Luogo, economista

La stampa di  “Un futuro più giusto, rabbia, conflitto e giustizia sociale” è stata fermata dal lockdown. Scrivete che quando l’avete riletto per il via libera definitivo dopo il blocco, l’impianto vi è sembrato più che mai attuale. “Non è a quella normalità che vogliamo tornare”. A che cosa vi riferite?
«A una normalità caratterizzata dalla crescita delle diseguaglianze: nella ricchezza, se pensiamo che in Italia 10 milioni di persone non ha risparmi sufficienti per sopravvivere 3 mesi senza reddito; nel lavoro, considerando che abbiamo almeno 6 milioni di lavoratori senza tutele; nell’accesso ai servizi di qualità come istruzione, mobilità, cultura, sanità. Ma esiste anche un’altra disparità e riguarda il riconoscimento: molti non si sentono ascoltati e non vedono nelle azioni di governo e nelle politiche locali un processo di riconoscimento di bisogni e aspirazioni. E questo alimenta rabbia che si indirizza verso chi sta peggio o è “diverso”. I poveri, i migranti, per esempio».

Non solo bisogni, ma anche aspirazioni. I cattivisti saltano sulla sedia.
«Ed è un errore. Non saper sviluppare e indirizzare le aspirazioni ha un costo secco sullo sviluppo. Pensiamo ai giovani, che si formano in Italia e poi vanno all’estero, costretti da un sistema bloccato in cui è certificata una scarsissima mobilità sociale. Si investe in formazione, ma poi i talenti si applicano in altri Paesi, dove producono crescita, ovvero Pil. Molti ragazzi, poi, sono costretti a prendere decisioni sulle proprie vite dettate dalle necessità. Anche perché l’ascensore sociale si è fermato da qualche decennio. Chi nasce povero e privo di stimoli culturali tende a rimanerlo. Il rischio è stare dentro un destino obbligato».

Sostenete che la crisi determinata dal Covid 19 apre nuovi scenari e che è possibile decidere quale imboccare.
«Oggi gli scenari possibili sono tre. Il primo l’abbiamo definito “normalità e progresso”. Occorre fare attenzione a un uso distorto del progresso. Non è che un maggior accesso alle tecnologie e alla digitalizzazione sia di per sé indice di progresso. Durante il lockdown ci siamo accorti che non tutti avevano gli strumenti e la connessione per garantire il diritto all’istruzione. Averli è necessario, dunque. Ma non è sufficiente. Serve una sorta di “educazione” alla digitalizzazione, fare in modo che gli strumenti vengano usati bene e, soprattutto, che tutti siano consapevoli di come vengono usati i propri dati. La consapevolezza sui processi di profilazione è decisiva: possiamo anche decidere che ci sta bene che i nostri dati siano disponibili, ma dobbiamo sapere come funziona. E quanto al lavoro, lo smart working può funzionare, ma o si fa in modo che il lavoratore possa organizzare meglio i propri tempi, oppure esiste il rischio di un eccessivo controllo su di lui. In nome di un presunto progresso non è barattabile né la consapevolezza né l’uguaglianza, o la libertà intesa anche come libertà da vigilanze occhiute o strumentali».

Il secondo scenario che indicate è “Sicurezza e identità”.
«Puntando sul fatto che occorre gestire la sicurezza dei cittadini, lo Stato prende molte, se non tutte le decisioni, senza alcun confronto. Si mette in moto un processo sanzionatorio verso tutto ciò o tutti coloro che ci sembrano diversi. Si ergono muri per proteggere una comunità chiusa e si rischia di incidere nell’area delle libertà individuali e dei diritti. È il piano di una deriva autoritaria strisciante. Ma questi non sono percorsi obbligati. Perché è del tutto praticabile una strada di giustizia sociale e ambientale, puntando su alcuni snodi strategici di policy».

Quali?
«Un futuro più giusto, che è il terzo scenario, quello che noi proponiamo, si ottiene innanzitutto promuovendo la creazione di buoni lavori, ovvero dignitosi e tutelati, in cui il lavoratore è partecipe e può far sentire la propria voce. E servizi di qualità su tutto il territorio, a partire dalle aree marginalizzate e dalle periferieW.

Qualche esempio.
«Pensiamo ai tanti piccoli bei luoghi del nostro Paese, che stanno perdendo abitanti e vita. Sviluppare turismo di prossimità non solo li valorizzerebbe, ma sarebbe produttivo in senso stretto, costruendo opportunità di lavoro tutelato. Ma ci sono anche i servizi di cura per i bambini nelle periferie delle città, dove i bimbi vivono molte difficoltà. Qui non solo lo Stato, ma il privato sociale può essere presente per esempio con centri educativi e non solo d’estate. Se si rivitalizza un territorio, non c’è più quel senso di abbandono che lo fa implodere».

Gli animal spirits del liberismo vi direbbero che è il libro dei sogni, e che costa troppo.
«E sbaglierebbero. Bisogna invertire la prospettiva e pensare a quanto si risparmia, anche guardando al futuro immediato. I giovani che non lavorano nelle periferie, o le donne che non cercano lavoro perché non riescono a conciliarlo con la maternità, costituiscono un deficit produttivo. I costi nell’immediato sono compensati dai risparmi futuri dovuti alla produttività messa in moto da politiche non miopi».

Quali sono gli altri snodi di policy che proponete?
«Accrescere l’accesso alla conoscenza, ad esempio favorendo uno scambio proficuo fra università e imprese, e orientare la trasformazione digitale verso la giustizia ambientale e sociale. È inoltre necessario intervenire sulla Pubblica Amministrazione, migliorandone la qualità e i metodi di lavoro e favorendo l’ingresso di giovani dipendenti anche per far fronte al cambio generazionale. Poi è importante puntare sulla dignità del lavoro e sulla partecipazione dei lavoratori e dei cittadini alle decisioni strategiche dell’impresa. E alla introduzione del salario minimo».

E qui i liberisti di cui sopra potrebbero tacciarvi di assistenzialismo.
«Molti studi ormai rilevano che il salario minimo non ha impatto sull’occupazione. E volendo guardare le cose in ottica liberista, con il reddito minimo molte imprese “cattive”, che stanno sul mercato solo sfruttando chi lavora, pagandolo pochissimo, uscirebbero dal mercato».

un futuro più giustoProponete anche una dote universale per i giovani.
«Al netto del fatto che è necessario migliorare l’accesso all’istruzione, i ragazzi devono poter avere la libertà di costruirsi il futuro e, con il proprio, anche quello del paese. Quindi pensiamo a una dote di 15mila euro da dare a tutti coloro che compiono 18 anni senza condizioni, ma accompagnati nelle scelte durante il percorso scolastico o attraverso le organizzazioni di cittadinanza attiva e di Terzo settore. Aiutandoli a mettere a fuoco le proprie inclinazioni e consentendo loro di renderle concrete».

Una sorta di avvio: se vuoi aprire un’officina hai una base di partenza.
«O se vuoi fare un viaggio di studio in qualche luogo che ti interessa particolarmente puoi farlo. L’idea è finanziare questa dote universale con un aumento della tassazione sui grandi patrimoni, quelli che superano i 500mila euro».

Qual è il ruolo del Terzo settore?
È fondamentale. Le organizzazioni di Terzo settore stanno sul territorio, lo conoscono e spesso praticano già nei fatti un’alternativa allo status quo. Spesso incarnano già il cambiamento e sono decisive per spingere i processi e determinare il confronto sulle politiche».

 

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