LAVORO REGOLARE MINORILE. TRA FORMAZIONE E SICUREZZA
Uno studio sulle misure per la sicurezza del minore e lo stato dell'arte della formazione. Standard minimi uniformi in tutta Italia per la formazione e la necessità di una rete per i 16-17enni alcune delle questioni emerse
23 Gennaio 2024
«Una ricognizione dei dati esistenti sui minorenni lavoratori e il risultato dell’ascolto dei principali interlocutori in materia attivi in 11 regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Lazio, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia». È il cuore dell’indagine nazionale Il lavoro regolare minorile tra formazione e sicurezza, realizzata dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nell’ambito del progetto Formazione sicura in età adolescenziale (Fase), promosso in collaborazione con l’Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali (Iprs) e la Fondazione Censis. I minorenni che lavorano possono essere divisi in quattro gruppi: «Gli occupati a tempo indeterminato, che hanno assolto l’obbligo scolastico e che nel 2022 erano 4.253; i lavoratori a termine, circa 42 mila: nella gran parte dei casi studenti che hanno occupazioni saltuarie per assicurarsi un reddito minimo; gli apprendisti, circa 7.800; gli studenti in alternanza scuola lavoro (circa un milione). Si tratta di minorenni iscritti alla scuola secondaria superiore o all’istruzione e formazione professionale (Iefp) impegnati in attività di Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento), stage e tirocini.
Inail: nel 2022 17.531 denunce per infortuni di minorenni
Lo studio «affronta due aspetti. Da un lato il rispetto delle misure di prevenzione e protezione che garantiscono assicurano la sicurezza del minorenne, dall’altro la verifica che l’attività lavorativa mantenga una dimensione prevalentemente formativa per scongiurare il rischio che venga considerato formazione il solo fatto di lavorare. Rispetto ai risultati emersi possiamo essere cautamente ottimisti, sebbene esistano delle criticità che vanno tenute presenti», ha chiarito l’Autorità garante Carla Garlatti. Sul piano della sicurezza, dall’indagine risulta una maggiore attenzione rispetto alla formazione sui rischi e all’uso dei dispositivi di protezione. Allo stesso modo si segnala anche il tentativo di ridurre le ore di presenza in azienda dei lavoratori minorenni in formazione professionale. I dati Inail evidenziano come nel 2022 si siano registrate 17.531 denunce per infortuni di minorenni: di queste, 14.867 hanno riguardato studenti (641 dei quali impegnati in alternanza scuola-lavoro) e 2.664 lavoratori (tra cui 285 allievi di corsi di formazione professionale). In 3 casi gli infortuni hanno avuto un esito mortale.
Formazione: servono standard minimi uniformi in tutta Italia
Riguardo l’inserimento nel mondo del lavoro, si registrano rilevanti differenze territoriali rispetto agli standard formativi offerti. «A fronte di regioni, soprattutto del Nord, che organizzano un numero di corsi di istruzione e formazione professionale più che adeguato alla richiesta, ci sono territori nei quali la formazione è gravemente insufficiente», ha commentato Garlatti. Oltre il 60% dell’offerta formativa è concentrata nel Settentrione, con la conseguente difficoltà per i minorenni che vivono al Sud di accedere ai percorsi di istruzione e formazione professionale: nel Nord-Ovest il 17,2% dei 15-17enni è iscritto alla Iefp, nel Nord-Est lo è il 15,9%, al Centro l’8,9%. «Rispetto a questi numeri occorre mettere in atto correttivi che assicurino in tutto il territorio nazionale standard minimi uniformi dell’offerta formativa gestita dalle regioni, oltre a una formazione completa al pari di quella offerta dallo Stato con licei e istituti tecnici e professionali».
Il 43 per cento dei Neet vive al Sud e nelle isole. Manca una rete per i 16-17enni
La questione dell’offerta formativa ha che fare anche con il fenomeno dei Neet, circa 140 mila minorenni tra i 15 e i 17 anni che non studiando né lavorando rischiano di rimanere esclusi da qualsiasi opportunità di socializzazione, formazione e lavoro e di precipitare in una condizione di esclusione e povertà immateriale da cui è difficile riprendersi. Il 43,2% di essi vive al Sud e nelle isole, il 14% al Centro. «Anche nelle regioni del Centro Nord si registra una percentuale di giovani che non vengono intercettati né dal sistema scolastico tradizionale né tantomeno da quello della Formazione professionale e dei quali non sempre è possibile conoscere le sorti, perché al momento in Italia non è decollato il sistema dell’Anagrafe formativa né tantomeno esiste un sistema di rilevazione che consenta di sapere tutti i minorenni in quali situazioni scolastiche, formative o lavorative siano», puntualizza il Rapporto. Ma anche il sistema IeFP (istruzione e formazione professionale) ha «le sue rigidità: nel Lazio i diciassettenni ad esempio non possono iscriversi al primo anno di IeFP né esiste un sistema alternativo per tutelare questi ragazzi che rimangono di fatto soli. È evidente la mancanza di una rete di attori che possano farsi carico del segmento 16-17enni e garantire la loro permanenza all’interno dei sistemi formativi».
Learning by doing e accompagnamento sociale
Il recupero della «pedagogia del fare, del learning by doing, in sostanza non vuole affatto rappresentare quel refugium peccatorum per coloro che non hanno avuto carriere scolastiche brillanti nel ciclo obbligatorio, ma una strada formativa altrettanto valida, come raccontano le esperienze dell’Emilia-Romagna, del Veneto e anche del Lazio. E per intervenire sui soggetti demotivati allo studio e di conseguenza allontanatisi dai contesti scolastici tale percorso formativo trova quali strumenti pedagogici elettivi non solo una diversa modalità di fare lezione in aula, ma la definizione e messa in atto di strategie di vero e proprio accompagnamento sociale (l’uso sistematico del tutor, il lavoro sociale con le famiglie, etc.), che tendono progressivamente a rimotivare i ragazzi, riavvicinarli allo studio, inserirli in percorsi di formazione di più lungo periodo, evitando anche un loro ingresso troppo precoce nei contesti produttivi», chiarisce il Rapporto. Si tratta di «strumenti pedagogici peraltro che si inseriscono in un quadro complesso e mutato rispetto al passato, di ri-significazione delle stesse espressioni di learning by doing e prossimità con il mercato del lavoro».