LE CHAT DI TELEGRAM, DOVE SI ANNIDA LA VIOLENZA
Nelle chat di Telegram ci si scambiano fotografie di minorenni, filmati di donne in intimità, contenuti privati. Un progetto di "Wired" e l'impegno di "Permessonegato"
19 Aprile 2021
Nelle chat di Telegram – per chi non la conoscesse un’app di messaggistica in qualche modo simile a WhatsApp – proliferano persone che sono lì per condividere, in maniera quasi sempre anonima, contenuti con fini molto diversi da quelli per cui, in tanti, siamo presenti sui social network. In queste chat uomini si scambiano fotografie di minorenni, filmati di donne in intimità diffusi senza il loro permesso, contenuti privati che non hanno il diritto di utilizzare. Le foto sono prese a ragazze ignare di tutto questo, rubate dai loro profili social, o scattate a loro insaputa mentre sono sui mezzi pubblici, per la strada, al bar o in un negozio.
Ma non si tratta solo di questo. Insieme alle foto, spesso, vengono diffusi i dati personali, il nome e il cognome, il profilo Facebook, e, quando è peggio, il numero di telefono, che viene dato in pasto al gruppo spesso per una vendetta personale. E le chat di Telegram sono anche il posto dove si cercano video di stupri, o consigli su come procurarsi droghe per lo stupro.
Ne siamo venuti a conoscenza tramite Wired Safe Web, un progetto editoriale per sensibilizzare i lettori e l’opinione pubblica su come prevenire e difendersi dalla violenza in rete, in tutte le sue forme. Dall’odio online alla diffusione di contenuti intimi senza consenso, dal cyberbullismo alla violenza contro la comunità LGBT+. Wired Safe Web nasce con un triplice obiettivo: tenere sempre la luce accesa su questi argomenti, fornire indicazioni chiare e puntuali alle vittime e alle famiglie per potersi difendere e tutelare, mettere insieme e dare rilievo al grande lavoro che associazioni, startup e professionisti già compiono sul territorio.
Telegram esiste per fare quello che è illegale
Uno dei manifesti che imperano in queste chat è che «Telegram esiste apposta per fare tutto quello che è illegale e perverso». Gli utenti che qui dentro scatenano i loro peggiori istinti sono protetti dalla crittografia e grazie a pseudonimi, anche se non manca chi esibisce con orgoglio la propria faccia e il proprio nome. «Ci sono forme di anonimato che vengono garantite agli utenti e consentono a chi voglia praticare queste serie di reati di poterli perseguire in Telegram anziché in alte app perché offre un facile mascheramento della propria identità, consente di fare porcherie liberamente, più di quello che si possa fare altrove» ci spiega Luca Zorloni, giornalista di Wired Italia. «E, oltretutto, essendo situata a Dubai, Telegram se ne infischia un po’ di rispondere alle richieste che riguardano la violenza femminile. Già quando si entra nel discorso della pedopornografia, che purtroppo è un contenuto che gira su questi gruppi, le segnalazioni tendono a far muovere Telegram. Purtroppo però la app cancella il gruppo, ma gli organizzatori hanno sempre il gruppo di backup, è come tagliare la testa all’Idra di Lerna: ne tagli una e se ne riformano altre nove. Altri riprendono i contatti con chi è interessato e vanno avanti a perseguire questi reati».
Ci sono, per fortuna, altri social network che sono diventati più reattivi: anche per una loro precisa questione di posizionamento. «Per Facebook, per Twitter è importante poter dire che determinati contenuti violenti non vengono più condivisi perché hanno deciso di proporsi, anche nell’interlocuzione politica, come luoghi sicuri», spiega Zorloni. «Telegram invece insiste soprattutto sulla non tracciabilità delle comunicazioni: ecco perché è un luogo sicuro, per chi non voglia far sapere con chi sta parlando e di che cosa. E questo posizionamento lo assicuri se, anche in presenza di questi casi, continui a dire che non li puoi vedere e non puoi intervenire perché non monitori le conversazioni. Purtroppo è un facile scudo dietro al quale si trincera, ma è chiaro che, forte di questo, Telegram continua a comportarsi in questo modo».
«Ci sono una serie di piattaforme che sono volontariamente conniventi», aggiunge Matteo Flora, presidente di PermessoNegato, associazione non profit nata poco più di un anno fa, per dare sostegno tecnologico alle vittime di violenza online, di diffusione non consensuale di materiale intimo e di attacchi di odio. «Non è chiaro per quale motivo: la motivazione principale è politica, non vogliono sottostare alla censura. Ma è sicuramente una convenienza di mercato: loro hanno una buona parte di utenti che la apprezzano perché è quella che non li censura. Contribuisce a tutto questo il fatto che determinati fenomeni non siano disincentivati. In Italia la rogatoria verso Telegram è stata chiesta per la pirateria, ma non per la pedopornografia».
Senza freni inibitori
Oltre a persone che fanno tutto questo nel più completo anonimato, ci sono anche quelle che utilizzano nelle loro profili nomi e cognomi e si presentano con una forma ufficiale.
«Un tema è quello che può fare e vuole fare Telegram, un altro quello che intendono fare e fanno questi criminali a tutti gli effetti», spiega il giornalista di Wired. «Queste persone si sentono al sicuro di ogni possibilità di essere perseguiti, in un luogo dove non vogliono avere freni inibitori – che è una scusa per non riconoscere che quelli che compiono sono dei reati a tutti gli effetti – e alcuni si sentono così arroganti da togliersi la maschera social di un nickname o una foto che non corrisponde al proprio volto. Questo è indice del fatto che in alcuni casi stiamo parlando di persone che, per problemi psicologici, non si rendono conto che quelli che stanno compiendo sono dei reati molto gravi; negli altri è volontà di usare violenza nei confronti di categorie di persone, che sono spesso e volentieri ignare di quello che succede a loro danno».
Le vittime, spesso ignare
Sì, perché molto spesso le vittime di questi abusi e violenze sono ignare, inconsapevoli di quello che sta accadendo loro, almeno fino a quando la situazione diventa insostenibile.
«L’inconsapevolezza sta solo nel non sapere che un proprio scatto viene adoperato per usi, che non erano quelli per cui era stato pensato, e che peraltro sono assolutamente violenti e devono essere perseguiti», riflette Luca Zorloni. «Le donne non hanno nessuna colpa. Nel momento in cui una ragazza mette una foto in costume sul proprio profilo Facebook o Instagram per condividerla con gli amici non ha colpa se uno, che viene animato dalla volontà di usare violenza, fa uno scatto, la usa, la manipola per farla girare in questi gruppi». «Non è colpa sua se un video condiviso intimamente con il proprio partner in un momento di intimità viene da lui stesso, perché la storia è finita, messo in questi gruppi e dato in pasto a questa gente», continua. «Sono scatti che nascono in contesti corretti, normali, familiari, personali e anche pubblici rispetto a quello che uno vuole essere, all’immagine vuole dare di sé. Che in alcuni casi può essere sexy e ammiccante. Ma non è una colpa. La colpa, la violenza, il reato sta in chi si appropria di un contenuto che non è suo e ne fa un uso per il quale non è stato pensato. Sapendo, consapevole in tantissimi casi, che l’uso che ne verrà fatto non sarà quello di un commento e via, ma sarà oggetto di violenza e persecuzione. Non si tratta solo della foto. Quello che gira su queste chat sono numeri di telefono, contatti social: vengono date delle generalità per consentire ai partecipanti di raggiungere le persone, di mandare messaggi indesiderati, proposte del tutto inadeguate e improprie, di fare stalking, di far sapere a una persona che la sua immagine circola in rete». E che gli effetti possono essere molti.
Non c’è solo il pericolo che la propria immagine intima diventi di pubblico dominio e data in pasto a quel tipo di pubblico, ma anche una foto pensata per una circolazione del tutto legittima venga abusata da questi gruppi. «Ci sono conseguenze psicologiche», commenta il giornalista di Wired. «La sensazione di non avere più una sicurezza sociale, e che tutto possa essere usato e ritorto contro di sé, di non avere più una sicurezza lavorativa, perché le foto possono essere destinate anche al datore di lavoro, una volta che si sa il nome della ragazza». È qualcosa che è molto più diffuso di quello che si creda: secondo una ricerca di Amnesty International e Iscos, in Italia una donna su cinque ha subìto molestie o minacce on line. È un numero impressionante».
La vittima si sente colpevole
Per far capire a queste ragazze inconsapevoli, che sono a tutti gli effetti delle vittime, che quello che stanno subendo è un reato, è importante il lavoro di associazioni come PermessoNegato. Il fatto che in molte non siano consapevoli, non cerchino aiuto, non denuncino dipende da una serie di problemi. «Il primo è che spesso non sanno di essere vittime», spiega Matteo Flora, presidente di PermessoNegato. «Una parte delle nostre vittime viene a conoscenza di questo perché un terzo glielo segnala, o perché iniziano a ricevere centinaia di messaggi non richiesti di offerte sessuali o insulti sui vari social. Quando si rivela che quel corpo ha nome e cognome, centinaia di utenti scrivono a quella persona, alcuni per avvisarla, con un intento alto e nobile, altri per fare avance o insultare».
Il secondo è che spesso non sanno che costituisce reato, per un problema che si chiama victim blaming, cioè l’incolpare la vittima» continua Flora. «C’è un atteggiamento di autocolpevolizzazione, e colpevolizzazione della società. Ci si autoattribuisce una colpa che non si ha, perché la vittima si trova nella condizione di dire: “però ho creato io la cosa, ho mandato io le foto” ».
«Il terzo aspetto è l’ignoranza di una serie di realtà che andrebbero conosciute di più» conclude il presidente. «Come, ad esempio, il fatto che tu abbia mandato a me un’immagine non ti autorizza a condividerla con altri. Si è fatto molto, a livello normativo, per lanciare la fenomenologia, il reato, ma molto meno, dal punto di vista pratico, per raccontarlo. L’unica cosa che si può fare è continuare a spingere l’opinione pubblica a capire che è un reato. C’è anche il fatto, importantissimo, che questo fatto da molti non venga percepito come reato, che non ci sia stigma sociale, ma anzi quasi una sorta di malato orgoglio da parte dei ragazzi che sono all’interno dei gruppi Telegram».
Il ruolo dell’informazione
Parliamo di reati veri e propri, normati dalla legge e sanzionati, anche in modo molto deciso. La pubblicazione di una foto online senza consenso è già di per sé un illecito, ma se provoca un danno, può essere punita con la reclusione fino a tre anni. La diffamazione porta alla prigione da sei mesi a 3 anni e una sanzione dai 516 euro in su. Condividere immagini di minorenni, ed è il caso di molte chat di Telegram, equivale al reato di detenzione e diffusione di materiale pedopornografico, punita con la reclusione da uno a cinque anni e una multa da 2.582 a 51.645 euro. Lo stalking può essere punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni. Solo il revenge porn non è ancora normato come reato specifico.
«Tutti questi comportamenti sono ricondotti al codice rosso», commenta il presidente di PermessoNegato. «Ci sono alcune lacune per alcuni comportamenti particolari. Ma siamo in un contesto internazionale che è normato e legiferato sull’argomento». A volte però le regole non si applicano e c’è molta paura, dal punto di vista delle vittime, a segnalare. «È legato allo stigma sociale, che spesso viene associato alle persone che denunciano» commenta Flora. «Vengono giudicate. C’è un motivo per cui noi diciamo alle vittime di non parlare mai alla stampa: spesso e volentieri, anche in buona fede, la stampa veicola in parte o tutta l’identità della vittima. E così il Velo di Maja che abbiamo creato viene distrutto in un momento. La massima quantità di nuovi utenti nei gruppi deriva da due cose: quando esce ad esempio la vip di turno o in concomitanza con gli articoli che parlano di queste cose. Se scrivono “su Telegram è facile trovare questi contenuti”, la gente ci va. È l’effetto Streisand, quello che si ha quando, nel tentativo di occultare l’informazione, se ne aumenta molto di più la portata».
Il lavoro di Permessonegato
PermessoNegato fornisce supporto tecnologico e di orientamento legale alle vittime e fa anche un grande lavoro di lobbying. «Diamo supporto alle segnalazioni», spiega il presidente. «Siamo segnalatori prioritari, nel senso che la nostra voce pesa un po’ di più di quella delle vittime nel segnalare i contenuti, e riusciamo a dare alle vittime un po’ di servizi, che attualmente sono a disposizione solo diassociazioni come la nostra. Ad esempio la possibilità di attivare con Facebook il pilot program, grazie al quale posso mandare preventivamente alcune immagini che ho paura vengano condivise per evitare che vengano ricondivise».
Lo scorso anno l’associazione ha gestito 500 segnalazioni e rimosso 3,5 milioni di contenuti online. «Offriamo un supporto di orientamento legale», continua. «Non è l’avvocato che ti segue la causa, ma un legale disponibile a chiacchierare per spiegare tutti i percorsi possibili a livello giuridico. Tutte le prestazioni sono gratuite, grazie ad alcuni finanziatori, che credono nel progetto: uno di questi è Facebook». E poi c’è il discorso di lobbying. «Si tratta di dedicare tempo ai giornalisti perché è importante che vengano date le informazioni in modo corretto, perché una comunicazione non corretta rischia di fare ancora più danni. E siamo a disposizione del legislatore e delle scuole per raccontare queste tematiche senza peli sulla lingua alle diverse realtà».
Il ruolo dei volontari
Un’associazione come PermessoNegato integra il lavoro di esperti di tecnologia, sicurezza, informatica, legge e criminologia. E si avvale del lavoro prezioso di molti volontari. «Tra i fondatori ci sono alcuni dei personaggi più influenti sull’argomento» spiega il presidente. «Poter unire così tante persone e così tanto competenti ci dà la possibilità di vedere un sacco di tematiche molto diverse, in condizioni molto diverse fra loro. Con una società che si occupa di reputazione on line facevamo da anni questa cosa, ma abbiamo deciso di dare le stesse possibilità a più vittime di quelle che potevamo aiutare singolarmente».
Come dicevamo, l’apporto dei volontari è fondamentale. «Si propongono e ci sono incontri periodici in cui raccontiamo che cosa facciamo. Presentiamo loro cosa possono fare e quali sono le aree in cui possono rendersi utili, facendo scegliere a ciascuno di loro quella per cui sono più portati» ci spiega Flora. «Ma, oltre a quello, facciamo anche un’analisi di controllo insieme a uno psicologo, per capire quali ruoli all’interno di un’associazione che tocca temi molto sensibili sono più vicini alla sensibilità delle varie persone. È una cosa che facciamo non solo per aiutare la vittima, che si deve trovare in un luogo sicuro, protetto, ma anche per tutelare gli stessi volontari, perché spesso chi fa il volontario arriva da un’esperienza traumatica, e noi non vogliamo possa impattare negativamente sulla loro salute mentale oltre che su quella delle vittime».
Riappropriarsi della rete
Il lavoro dei social network stessi, di testate come Wired, di associazioni come PermessoNegato e di noi giornalisti è importante, non solo per le vittime e le potenziali vittime, ma per tutti noi. «Non dobbiamo scappare dalla rete, non dobbiamo nasconderci, o apparire solo del tutto mascherati, perché non ci si può più stare in questo posto, se non travestiti come arlecchini per non essere riconoscibili», riflette Luca Zorloni. «Ma dobbiamo espungere da questi posti coloro i quali compiono violenza, reati e abusi, in modo che sia un luogo sicuro, accogliente, inclusivo. Altrimenti si ripercuote nel mondo digitale quelle terribili agghiaccianti espressioni, dalle quali mi dissocio, come “quella se l’è cercata perché indossava la minigonna”, “perché ha messo la foto in bikini”. Assolutamente no. Dobbiamo pretendere, come utenti e cittadini, il massimo impegno delle piattaforme a perseguire questi soggetti, a espellerli o metterli nelle condizioni di essere perseguiti e raggiunti dalle forze dell’ordine, dobbiamo chiedere la massima tutela delle vittime; canali semplici per denunciare, in maniera sicura ed efficace; dobbiamo chiedere conto alle piattaforme e alle aziende che non facciano loro uso dei dati che hanno in mano, perché rappresentano molto di noi, sono preziosissimi. Se abbandoniamo il campo, davvero lo lasciamo a bande di criminali, aguzzini e violenti e ad aziende che ne abusano. Se invece facciamo rete non solo a livello politico e sociale, per la tutela di questi luoghi, ci potremo riappropriare di un posto che che è nato per obiettivi importanti: la conoscenza, la comunicazione, l’incontro con le persone».