LE PAROLE DELLA POLITICA OGGI SONO TOSSICHE. ED È UN PROBLEMA
Siamo schiavi dello storytelling, che ci distoglie dal pensiero critico. L'analisi di Giuseppe Antonelli nel suo libro "Volgare eloquenza"
30 Giugno 2019
Quando si è diffusa la notizia che la Sea Watch, nel Mediterraneo da oltre due settimane con una quarantina di migranti a bordo, avrebbe forzato il blocco per entrare a Lampedusa, e che di conseguenza la Ong sarebbe stata punita tra l’altro con una multa di diverse migliaia di euro, l’organizzazione ha lanciato una raccolta fondi e molte altre piccole e grandi raccolte sono state fatte da gruppi e singoli cittadini che solidarizzavano con essa. Inaspettatamente, hanno avuto un immediato e insperato successo.
Matteo Salvini ha commentato con un tweet: «Carola, in colpa per essere nata “bianca, tedesca e ricca” e Sören (ricordate? Il suo motto pare sia “rimanere ribelle, rimanere marciume”) ringraziano il PD per le donazioni alla nave pirata Sea Watch».
Il tweet colpisce per l’abilità con cui trasforma un’azione di solidarietà diffusa e nata dal basso in un motivo di accusa nei confronti di un partito avversario, estraneo al fatto; per l’aggressività con cui banalizza le parole della capitana della nave, che in un’intervista aveva spiegato il proprio impegno, riconoscendo di essere nata in un contesto privilegiato e di sentire il bisogno, anche per questo, di aiutare chi non aveva avuto la stessa fortuna; per come in poche parole ha trasformato una buona notizia (ci sono italiani generosi, che non hanno paura di chi soffre) in un messaggio in cui vengono additati dei nemici (la capitana, Soren -un membro dell’equipaggio in stile punk, sconosciuto ai più, che aveva osato dare del fascista a Salvini – e il PD che, ripeto, nulla c’entra con le raccolte fondi) contro cui scatenarsi.
L’IMPERO DELLO STORYTELLING. La domanda è: come è possibile che un ministro della Repubblica, un uomo politico di lungo corso, che dovrebbe rappresentate le Istituzioni, usi questo tipo di comunicazione? Un’analisi del problema la si trova nel libro Volgare Eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, di Giuseppe Antonelli, riproposto recentemente da Rizzoli in edizione economica (la prima edizione è del 2017).
Antonelli, che insegna Storia della Lingua Italiana all’Università di Cassino, parte da una constatazione: oggi viviamo in tempi di storytelling, parola con la quale si identifica la buona comunicazione negli ambiti più diversi: pubblicità, campagne sociali, e anche politica. Storytelling è la parola che va di moda, ma quella giusta, dal significato più esplicito, è affabulazione, intesa, spiega Antonelli, come «la tendenza dell’uomo a creare miti e rappresentazioni fantastiche come antidoto alla paura e alla morte».
LA PERDITA DELLA DIMENSIONE CRITICA. Significa che abbiamo rinunciato ad argomentare (che noia il ragionamento, l’approfondimento, la ricerca della verità!) e nella comunicazione privilegiamo il racconto, sicuramente più interessante, leggero, attraente. Ma soprattutto il racconto piace a chi vuole comunicare, perché tocca corde emozionali e quindi è più efficace nel convincere e nel motivare. E allora dovremmo chiederci: il racconto di cosa parla? dice la realtà? Forse sì, in qualche caso e in qualche senso. Ma in genere no. Il problema è che pochi se lo chiedono, pochissimi si pongono il problema della verifica. Perché il racconto è per sua natura valutato in base alla sua capacità di coinvolgere, non in base alla sua veridicità.
La narrazione, oltre ad escludere dalla comunicazione la dimensione della critica, esclude anche quella della partecipazione: è un flusso da uno a molti, in cui chi ascolta al massimo esprime (alla fine, per non disturbare) un suo parere più o meno motivato, poco o tanto rancoroso, che non va a incidere sul racconto (se non in quanto test di gradimento) e a cui probabilmente nessun altro risponderà, comunque non il narratore.
GLI EMOLOGISMI. Dunque è così che oggi le parole della politica nascono, si organizzano, si diffondono. La virata dal ragionamento al racconto si esprime anche attraverso un cambio del linguaggio, che deve moltiplicare l’efficacia del racconto stesso, facilitando l’identificazione di chi ascolta – il cittadino quindi. Dunque, chi parla usa lo stesso linguaggio di chi ascolta, o almeno un linguaggio immediatamente decodificabile. E pazienza se è banale, magari perfino volgare.
Di questo linguaggio sono parte fondamentale gli emologismi: «parole, frasi, formule che funzionano come emoticon o emoji» e quindi si diffondono come parole d’ordine pronte ad essere usate senza chiedersi perché: pensiamo ai vari vaffa, rottamazione, nomadare, prima gli italiani. Espressioni di facile effetto, che attirano like e condivisioni sui social. I quali sono lo strumento che hanno facilitato e montato tutto questo come se fosse panna, anche se il processo di banalizzazione del linguaggio politico, fa notare Antonelli, era cominciato molto prima, quando Berlusconi controllava, oltre alle proprie reti televisive, anche quelle della Rai, e la televisione è diventata il principale strumento di propaganda politica.
IL POTERE DEI CAPIPOPOLO. Antonelli la chiama “Volgare Eloquenza”, per dire un’eloquenza che si collega al volgo, cioè al popolo. Ma in realtà non di popolarità si tratta, quanto di populismo: per questo il linguaggio politico è così spesso becero.
È anche per questa via che l’odio si è diffuso in modo apparentemente inarrestabile nel discorso pubblico, che si tratti dell’odio intrinseco nel linguaggio antipolitico dei 5Stelle (anche questo figlio della rivoluzione politica di Berlusconi) o che sia quello della Lega e di altri leader politici. Un odio che ha accompagnato il passaggio dalla democrazia (il potere del popolo) alla demagogia (il potere dei capipopolo).
Esiste un antidoto a questo veleno insito oggi nelle parole della politica? Secondo Antonelli bisogna liberarsi dalla dittatura dei nuovi strumenti di comunicazione, a cominciare dai social, tornare a concentrarsi sul messaggio, «partendo non dalle esigenze comunicative della rete, non dai dettami del marketing politico o dai risultati dell’ultimo sondaggio, ma dall’analisi della realtà. Prima il messaggio e poi il linguaggio.»
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Giuseppe Antonelli
Volgare Eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica
Laterza 2019
pp. 126, € 10,00
Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org
2 risposte a “LE PAROLE DELLA POLITICA OGGI SONO TOSSICHE. ED È UN PROBLEMA”
Drammaticamente vero che la politica abbia smesso di parlare per slogan (che almeno dietro avevano se non un’idea, una ideologia, una scelta di campo e un riferimento culturale) e si è attrezzata per lanciare tweet e Emologismi (bella l’immagine della parola che non porta il suo significato, ma solo l’emozione che vuole innescare). Lo storytelling però è altro, e appunto è un cercare strade per dare la parola a chi non può scriverla in prima pagina, ma la sua esperienza si che la può raccontare e condividere. Attrezzarsi a raccontare storie significa mostrare alle persone che hanno un valore intrinseco e che la testimonianza è importante, proprio perché lascia in chi ascolta la responsabilità di prendere parte, di entrare in relazione con il racconto ascoltato e comportarsi di conseguenza.
Hai ragione Claudio, ma il libro analizza il linguaggio politica e in politica lo storytelling fa male, quando diventa totalizzante e si sostituisce al ragionamento.