LE PROPOSTE FEMMINISTE PER IL CAMBIAMENTO CHE VOGLIAMO

In un documento coordinato da D.i.Re - Donne in rete contro la violenza, le proposte femministe per riconoscere finalmente i diritti delle donne

di Ilaria Dioguardi

68 autrici e 45 organizzazioni di donne hanno unito le loro professionalità e competenze e hanno dato vita al documento “Il cambiamento che vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino”, dopo due mesi di intenso lavoro. Quali cambiamenti occorrono per trasformare in opportunità la crisi generata dalla pandemia Covid19? Cosa fare per andare oltre un sistema economico, sociale e culturale, diventato palesemente insostenibile perché continua a escludere le donne, crea profonde ineguaglianze e sfrutta le risorse naturali e i corpi senza garantire benessere per tutti e tutte? Questi interrogativi sono stati il punto di partenza del lavoro, coordinato da D.i.Re – Donne in Rete Contro la Violenza, che si è concentrato sulle sette aree critiche identificate come prioritarie dalle Nazioni Unite per rilanciare e attualizzare la Piattaforma d’azione di Pechino, adottata all’unanimità da tutti i paesi del mondo 25 anni fa, nella IV Conferenza mondiale delle donne.

Donne protagoniste nella pandemia

«Durante il primo periodo dell’emergenza, le donne hanno retto l’intero Paese non solo nel lavoro di cura, ma anche nelle strutture sanitarie, scolastiche e formative. Il sistema di gestione di potere retto dagli uomini ha fallito. Si deve innescare veramente un cambiamento nelle nostre società e nelle nostre vite», dice Antonella Veltri, presidente di D.i.Re. «In 25 anni trascorsi da Pechino tante associazioni di donne hanno fatto battaglie per le discriminazioni. Ma molti sono gli arretramenti che registriamo e per ribadire con massima autorevolezza che senza le donne il sistema fallisce abbiamo una sola possibilità: ripartire da noi, è questo il cambiamento che vogliamo».
«Durante questa pandemia le e donne hanno mostrato la loro forza. Le insegnanti, i medici, le infermiere, le agricoltrici biologiche, le veterinarie hanno mandato avanti l’Italia e il mondo. Devono prendere il proprio posto, pretendendo libertà e dignità di scelta: questo è l’empowerment», afferma Daniela Colombo, economista dello sviluppo.

Il documento, scritto da donne attive su diversi temi e di diversa provenienza storica e teorica, non può non collocarsi nel processo di revisione internazionale degli impegni di Pechino, che in questi mesi ha dovuto tenere conto degli impatti del Covid-19, che ha messo in luce, esacerbando anche, le barriere strutturali all’uguaglianza tra uomini e donne. «Il nostro documento non è avulso da questa consapevolezza, il cambiamento che vogliamo e l’impegno che chiediamo al nostro Paese va al di là della nostra dimensione nazionale, perché le grandi barriere strutturali ai diritti e all’uguaglianza delle donne sono fenomeni sovranazionali di globalizzazione, che richiedono un impegno di tutti gli stati», sottolinea Claudia Pividori, esperta di diritti umani del Centro Veneto Progetti Donna.

Per una nuova agenda politica

La struttura del position paper si rifà a questa prospettiva internazionale, è articolato in sette grandi temi, che sono delle articolazioni più ampie delle 12 aree di Pechino e dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2020: sviluppo inclusivo, crescita condivisa e lavoro dignitoso; povertà, protezione sociale e servizi sociali; violenza maschile contro le donne; partecipazione, accountability e istituzioni gender-responsive; società pacifiche e inclusive; protezione, conservazione e rigenerazione dell’ambiente e, infine, istituzioni e meccanismi per l’uguaglianza di genere.

proposte femministe
La conferenza stampa di presentazione del documento “Il cambiamento che vogliamo. Proposte femministe a 25 anni da Pechino”.

«Quello che vogliamo è che queste grandi aree diventino il fulcro di una nuova agenda politica, il cui obiettivo sia quello di rimuovere gli ostacoli strutturali all’uguaglianza di genere. Non ci possiamo più accontentare di misure che non incidano sulle strutture di potere asimmetriche, che compromettono la possibilità alle donne di godere appieno dei loro diritti. Un tema che emerge in maniera fortissima dal nostro documento è la necessità di affrontare la radice culturale della discriminazione e della violenza contro le donne. Nel nostro paese c’è ancora una cultura retrograda, patriarcale, basata su stereotipi e sessismo, che creano degli ostacoli alle donne, alla loro effettiva partecipazione. Non vogliamo misure che non siano in grado di incidere realmente su questo. Una chiave di svolta è sicuramente quella dell’educazione, come leva di trasformazione sociale della condizione materiale, sociale, simbolica di donne e di uomini, a cui si accompagna anche una grande riflessione sul linguaggio, come strumento potente di creazione della realtà», dice Pividori.

Con questo lavoro non solo si mettono in discussione (e si esige che siano messe in discussione) le norme sociali che impediscono alle donne di realizzarsi pienamente, ma anche gli assetti economici e sociali che rendono le donne invisibili e negano loro valore. Le proposte, le idee puntano a questo: le donne che lo hanno scritto vogliono per tutte le donne riconoscimento, spazio, valore. Non basta avere una visione, un’agenda politica, chiedono strumenti per la completa attuazione del loro ideale. Servono strategie che mettano al centro la dimensione di genere e come la dimensione di genere si intersechi anche nelle molteplici espressioni della diversità delle donne. Non vogliono più avere politiche che concepiscono la questione femminile come un’aggiunta, un’appendice, un allegato: la dimensione di genere deve essere trasversale alle politiche, alle strategie, ai meccanismi istituzionali. È urgente la necessità di azioni che si basano su dati ed evidenze che possano orientare, di dati e statistiche disaggregate per genere, di bilancio di genere, di concretezza.

Il lavoro dimenticato

Il 41% del PIL (prodotto interno lordo) è prodotto da donne, 9 milioni e 300mila sono le donne occupate in Italia. «Il bilancio di genere vuole far emergere questa realtà, ha sempre avuto la difficoltà ad essere stato usato come strumento politico, non è stato in grado di produrre un cambiamento. È importante capire al più presto come verranno utilizzati 300 miliardi di aiuti dell’Unione Europea e che venga stretta un’alleanza di genere tra le donne della politica e della società civile», dice Giovanna Badalassi, esperta di economia e politiche di genere, di Ladynomics.

Si registra una grande debolezza delle donne occupate, con un differenziale salariale rispetto agli uomini del 35-40%. Gli interventi degli ultimi 20 anni hanno avuto risultati poco significativi, con una scarsità di investimenti. «Nel piano della task force di Colao solo al 94° punto del documento si parla delle donne, come se non fossimo le protagoniste. Il 75% degli eroi di quest’emergenza Covid19 erano eroine, ma i media non se ne sono ricordati. Gli economisti hanno dimostrato che il PIL potrebbe salire dell’1-1,5% se alle donne si desse il giusto riconoscimento professionale e salariale”, sostiene Stefania Pizzonia, presidente di LeNove.

Diritti sessuali e riproduttivi

Due aspetti sono all’origine dei problemi e delle difficoltà che le donne devono affrontare in merito all’autodeterminazione su tutti gli aspetti della loro salute sessuale e riproduttiva: il progressivo definanziamento, la regionalizzazione e l’aziendalizzazione della sanità pubblica in Italia e l’attacco a livello internazionale di estremisti religiosi nei confronti dei diritti umani in tema di sessualità e riproduzione. «I tagli sempre più grandi nella sanità pubblica, insieme alla presenza sempre più ampia di quella privata, hanno eroso la possibilità del servizio sanitario pubblico di erogare servizi su base universalistica ed egualitaria», afferma Stefania Graziani, sociologa dello SNOQ Torino. «L’attività di lobby delle forze conservatrici e degli estremisti religiosi mira a modificare le leggi esistenti sul divorzio, sulla contraccezione, sull’interruzione assistita, sull’aborto e sui diritti delle persone LGBT+. Questo significa che sui diritti sessuali riproduttivi delle donne si compiono battaglie spregiudicate che vanno ben oltre i diritti delle donne e riguardano i diritti di tutti i cittadini”.

Le proposte concrete del position paper? Nonostante l’Italia sia stato il primo Paese al mondo a dotarsi di una legge sulla medicina di genere, rimangono diversi ostacoli: mancano linee guida specifiche e una raccolta sistematica di dati disaggregati per genere ed età, è necessario aggiornare i testi universitari e formare studenti e personale medico sanitario. È urgente aumentare il numero dei consultori familiari e fare in modo che la loro distribuzione sia omogenea in tutto il paese, con accesso libero, diretto e gratuito; è necessario che i consultori lavorino in maniera integrata con il resto del territorio e si coordinino con gli altri servizi sociali. «Inoltre, bisogna eliminare tutti gli ostacoli che rendono difficile, e a volte impossibile, praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. In Italia è elevatissimo il numero degli obiettori di coscienza (7 su 10), potrebbero essere utili concorsi riservati ai non obiettori. Deve essere garantita la libertà di scegliere sull’aborto farmacologico, fino alla nona settimana di gravidanza, come avviene in tutti i Paesi occidentali, e non solo fino alla settima come accade da noi. Per quanto riguarda la contraccezione, l’obiettivo è la gratuità universalistica, in Italia è la più cara d’Europa», continua Graziani.

Sono, inoltre, necessari un sito istituzionale in diverse lingue e un numero verde con informazioni dirette ed aggiornate su come e dove accedere ai servizi sanitari, anche a quella di emergenza. Infine, è importante avviare programmi efficaci di educazione sessuale ed affettiva che coinvolgano i consultori familiari e le scuole, a partire già dalla prima infanzia.

Il linguaggio dei media

L’informazione di genere deve essere chiara ed eliminare gli stereotipi. «Il percorso da intraprendere è soprattutto culturale», afferma Mimma Caligaris, giornalista sportiva e scrittrice, presidente della Commissione Pari Opportunità della FNSI – Federazione Nazionale della Stampa Italiana e vicesegretaria generale di USSI – Unione Stampa Sportiva Italiana. «Il diritto di cronaca non può diventare mai un abuso e l’informazione non può mai diventare sensazionalismo. Il Manifesto di Venezia ha quasi 3 anni di vita, è da tenere sempre in considerazione, fu sottoscritto da più di 1000 colleghe e colleghi, ma nel racconto della violenza ci troviamo ancora quotidianamente a confrontarci con una narrazione che contiene delle parole e delle immagini che non sono rispettose delle donne e trascendono il diritto di cronaca. Questo manifesto di Venezia è uno strumento culturale che consegniamo a tutti, coinvolgendo gli altri attori della comunicazione e le istituzioni. Le donne, anche nella stampa sportiva, sono il principale bersaglio, sono le vittime prioritarie. Se non educhiamo a un linguaggio di genere, neghiamo alle donne delle conquiste che abbiamo fatto. Il linguaggio di genere veramente porta parità e negarlo è una forma di violenza nei confronti delle donne».

Altre proposte

La violenza è sistemica, riguarda tutte le discriminazioni sulle donne che si trovano nel position paper. Nel lavoro si denuncia anche la continua marginalizzazione della politica anti tratta e si chiede al governo che le politiche anti tratta tornino ad essere un capitolo importante della politica italiana; inoltre, si chiede l’introduzione di procedure di ascolto delle donne appena arrivate in Italia, con l’identificazione delle loro vulnerabilità. Per quanto riguarda le discriminazioni multiple, bisogna superare la visione binaria dell’identità di genere, vedere la discriminazione delle donne con disabilità dal punto di vista non solo lavorativo, ma anche sessuale e riproduttivo. È importante promuovere formazione e approcci di compartecipazione attiva condivisa e un’autodeterminazione individuale condivisa.

Questo il video della conferenza stampa:

 

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