LILIANA SEGRE, LA MEMORIA È IL RICORDO CON IL CORAGGIO

Senza la Memoria tutto rischia di essere rimesso in discussione, e sta accadendo. Liliana, il film di Ruggero Gabbai su Liliana Segre, al cinema dal 20 gennaio, arriva proprio per ricordarcelo

di Maurizio Ermisino

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«È impossibile per me non provare una specie di vertigine ricordando che quella stessa bambina, in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco della scuola elementare. E che quella stessa bambina, per uno strano scherzo del destino, addirittura si trova sul banco più importante del Senato». Sono le parole di Liliana Segre, senatrice a vita, che aprono Liliana, il film di Ruggero Gabbai in uscita al cinema il 20, 21 e 22 gennaio e il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria. Intorno ad un’intervista di trent’anni fa – che è all’Archivio della Memoria a Milano – sulla sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz, è stato costruito un nuovo film, che racconta la Liliana di oggi, il suo essere madre e senatrice, la sua visione del mondo. Coinvolgendo i figli e altri personaggi come Fabio Fazio, Enrico Mentana, Ferruccio De Bortoli.

Liliana Segre
“Te lo racconterò quando sarai grande” diceva ai figli Liliana Segre, qui con il nipote Filippo

Il racconto della deportazione  

Quel numero tatuato sulla pelle del braccio è sbiadito, ma non è mai stato cancellato. Perché Liliana Segre è anche quella persona lì. È stata in silenzio per 45 anni, dopo quell’esperienza. Poi, dopo una forte depressione, decide di parlare. Il racconto della sua deportazione e della prigionia è terribile: le SS con i fischietti e i cani lupo, i pugni e i calci con cui fanno salire sul camion i deportati. E i vagoni dentro ai quali si è sprangati, non si capisce cosa succede, dove si sta andando. Chi è su quei treni attraversa più fasi. C’è la disperazione assoluta, il pianto. Poi c’è la preghiera. Poi nessuno piange più né prega più: c’è solo il silenzio.

Auschwitz, il binario morto

L’arrivo ad Auschwitz è ancora più spersonalizzante. È davvero il binario morto, quello di non ritorno. I comandi vengono urlati, si sente una Babele di lingue. Essere lì vuol dire non sapere dove si è arrivati e perché. Le SS decidono, indicano con un cenno del capo: a destra o sinistra, verso la morte o verso una baracca, dove si lascia quello che si ha addosso e la propria identità. E si esce con l’identità di prigionieri, con quel numero tatuato sul braccio da non dimenticare mai, perché da quel momento si sarà solo quello. Chi è già lì racconta cosa succede e si fa fatica a credere che sia così: quell’odore dolciastro è la carne bruciata.

Nessuno è mai davvero uscito da Auschwitz

Liliana Segre quando racconta, si stacca da se stessa. È come se parlasse di un’altra persona che forse non racconta nemmeno tutto, perché non ce la fa. «Qualsiasi sopravvissuto, una volta varcati i cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, non è mai veramente uscito» ci spiega Ruggero Gabbai. «Lo hanno fatto fisicamente, ma qualcosa è rimasto lì. È impossibile vedere quello che hanno visto e non subire un trauma esistenziale. All’inizio non pensavano di essere creduti e non hanno parlato per anni. Hanno delegato in maniera indiretta Primo Levi, l’unico che parlava e scriveva sulla Shoah. Dopo la sua morte hanno parlato con noi dell’Archivio della Memoria. Questo avveniva 40-45 anni dopo la Shoah: prima non c’era questa rappresentazione. E poi non volevano recare dolore a casa. “Te lo racconterò quando sarai grande” diceva Liliana ai figli. Ma i figli in fondo non devono mai essere così grandi: è troppo difficile raccontarlo a loro».

Liliana Segre
Gabbai: «La vera Shoah non sono i sopravvissuti, sono i nuclei familiari che sono stati inghiottiti dalle camere a gas e di cui nessuno sa più nulla. Sono persone che sono sparite e basta, sono diventate cenere e c’è lessico familiare di generazioni che non esiste più»

I figli devono proteggere i genitori

Essere stati in un campo di concentramento è come essere esposti alle radiazioni: ti resta dentro. E non si riescono a lasciare fuori i figli da questa cosa. «Cercano razionalmente di farlo, ma non ci riescono» ci spiega Gabbai. «C’è una trasmissione del trauma e del dolore che è quasi impalpabile, non è razionale, ma c’è». Così spesso sono i figli che devono proteggere i loro genitori. «Ci sono dei rovesciamenti di ruolo» riflette il regista. «È il genitore che chiede aiuto ai figli, non è in grado di esprimere il proprio dolore né di essere veramente genitore, soprattutto se è stato ad Auschwitz da giovane, perché non ha vissuto la giovinezza».

Senza la memoria tutto può essere rimesso in discussione

Enrico Mentana spiega che senza la memoria tutto torna al punto di partenza. Tutto può essere rimesso in discussione. Ed è quello che sta accadendo. «Oggi con le AI, le fake news, il bombardamento mediatico, se uno non ha dei riferimenti storici, se i ragazzi non studiano la storia, non possono sviluppare una capacità critica» riflette Gabbai. «Se gli stessi avvenimenti vengono messi in discussione, paragonati a eventi contemporanei, non si capisce più nulla. È il nuovo revisionismo, che ha delle basi sul falso. Il revisionismo prendeva cose vere e le mistificava o le negava. Oggi c’è il relativismo storico, che è molto più pericoloso».

Il ricordo con il coraggio

Ferruccio De Bortoli dice che la memoria è il ricordo con il coraggio. «Coraggio dal punto di vista piscologico, perché ricordare e raccontare non è facile: rompi un tabù e apri il buco nero della tua esistenza, della tua essenza. Ci vuole coraggio ad aprire un file così doloroso. E ci vuole anche molta generosità e dignità di racconto». De Bortoli fa notare anche il silenzio che si crea quando Liliana parla. Quel silenzio è il rispetto verso chi non c’è più. «Stiamo raccontando i sopravvissuti» ci spiega Gabbai. «Ma la vera Shoah non sono i sopravvissuti, sono i nuclei familiari che sono stati inghiottiti dalle camere a gas e di cui nessuno sa più nulla. Un sopravvissuto può ricordare un parente che è morto. La Shoah, il buco nero, sono persone che sono sparite e basta, sono diventate cenere e c’è lessico familiare di generazioni che non esiste più. Noi rappresentiamo anche loro che non hanno più il potere e la voce di dire: noi c’eravamo».

LILIANA SEGRE, LA MEMORIA È IL RICORDO CON IL CORAGGIO

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