LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT: L’EROE NASCE DAL SERVIZIO CIVILE
Il miglior film italiano dell’anno racconta un supereroe di periferia: lo sceneggiatore ha conosciuto Tor Bella Monaca durante il servizio civile
24 Febbraio 2016
Possiamo essere eroi, anche solo per un giorno, cantava David Bowie. E ognuno di noi può esserlo. Se lo può fare un uomo qualunque, un ladruncolo di Tor Bella Monaca, allora possiamo guardarci dentro e diventarlo anche noi. È quello che racconta “Lo chiamavano Jeeg Robot”, lo strepitoso film d’esordio di Gabriele Mainetti, probabilmente il miglior film italiano dell’anno. Nella profonda borgata di Roma, a Tor Bella Monaca, vive Enzo Ceccotti, piccolo criminale che vive di espedienti: un giorno, cadendo nel Tevere, entra in contatto con una sostanza radioattiva e diventa unbreakable, indistruttibile e fortissimo. Sì, ha dei superpoteri. E allora? Come usarli? “Lo chiamavano Jeeg Robot” è il primo cinecomic italiano (pur non essendo nato da un fumetto), è grande cinema di genere, una storia d’amore e di soprusi, un gangster movie e un fantasy, cinema dal taglio americano ma pieno di cultura pop all’italiana.
Lo chiamavano Jeeg Robot: sono così perché ho perso tutto
Uno dei segreti è proprio la conoscenza del territorio che racconta. L’idea di ambientare la storia a Tor Bella Monaca infatti nasce dall’esperienza di servizio civile di uno degli sceneggiatori. «Conosco Tor Bella Monaca come la conosce uno degli sceneggiatori, Nicola Guaglianone, che ha fatto il servizio civile lì», ci racconta Gabriele Mainetti.
«Lui per primo è stato quello che l’ha conosciuta in modo preciso, e ha avuto esperienze dirette. Io l’ho conosciuta con il teatro, e andando a lavorare lì con mio padre. Tor Bella Monaca è quella che viene definita una periferia difficile. Quello che volevamo evitare era quello sguardo borghese di chi si avvicina a un contesto disagiato, quello che giudica e dice “poverini, quanto stanno male”. Siamo entrati in empatia profonda con i personaggi, con alcuni ragazzi, per capire le loro motivazioni. Solo così ci possiamo rendere conto di quanto siano simili a noi». «Da qui parte la scelta di scrivere un personaggio come Enzo, interpretato da Claudio Santamaria, che ho portato a Tor Bella Monaca a incontrare delle persone che gli hanno raccontato la propria vita» continua il regista. «Ci siamo inventati una backstory di quello che era accaduto al protagonista, che poi è quello che sentiamo nel monologo: io sono così perché ho perso tutto. La speranza però sta nel fatto che si possa cambiare. Come? Eliminando quella dissociazione profonda in cui cominci a soffrire, e ti trovi a pensare che la tua unica soluzione sia quella del delinquere». Chiediamo al regista cosa gli sia rimasto di Tor Bella Monaca, cosa abbia di particolare quella zona. «Mi sono rimaste le persone che ho conosciuto, come un ragazzo che a tredici anni non aveva il padre, la madre aveva un compagno spacciatore, e ha iniziato a 16 anni a spacciare cocaina», ci risponde. «Si è ancorato a una ragazza, che poi è diventata sua moglie, per non ricaderci. Sembra che la famiglia sia la soluzione per non ricascarci. Mi sono rimaste impresse le torri di via Santa Rita da Cascia, via dell’Archeologia, l’R5. Mi ha colpito il silenzio che c’è a Torbella. C’è uno spazio dove entri e non puoi più uscire, e dove la polizia entra solo per fare arresti. È un non luogo degradato dove c’è tanto silenzio».
Un mix di toni per raccontare le difficoltà della periferia
Ma non è solo l’ambientazione a Tor Bella Monaca il segreto del film. Una delle chiavi è quella di rifare un tipo di cinema tipicamente americano restando saldamente in Italia, grazie al dialetto romano e alla cultura pop di cui permea ogni battuta. Ci sono i capisaldi della generazione cresciuta negli anni Settanta, con i cartoni animati giapponesi, ma anche con il nostro pop, quello di Anna Oxa e Loredana Bertè, che Fabio “lo Zingaro” (Luca Marinelli), il villain rockstar della storia, ama ascoltare e cantare nelle sue esibizioni. «In molti ci chiedono come abbiamo fatto a rendere il film così italiano», ci spiega Mainetti. «Con l’identità dei personaggi e il contesto scenografico. E poi con la musica: volevamo lavorare con un grande musicista italiano che non ci ha filato. Con Luca Marinelli abbiamo iniziato a pensare al pezzo che lo convincesse di più per la sua esibizione. Tra “Non sono una signora” e “Un’emozione da poco” abbiamo pensato ad Anna Oxa perché si prestava a un discorso di look, agli esordi era la nostra David Bowie. Lo Zingaro è un cattivo eccezionale perché è divertente, gli vuoi bene, perché è fragile, è vittima della fama e dei social, perché già ne viveva. I personaggi hanno un rapporto quasi bulimico con un dispositivo per immagini: Enzo con i film porno, Alessia con il dvd player e lo Zingaro con YouTube. Aveva provato la carriera d’artista, e non era andata, e gli è rimasto un bisogno narcisistico di apparire».
Una delle chiavi è la solidarietà, che arriva con l’incontro col prossimo
“Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film incredibile. È un vero comic movie ambientato nelle borgate romane, con personaggi iperbolici eppure credibilissimi grazie alle interpretazioni degli attori, Claudio Santamaria e Luca Marinelli su tutti. È un film che mescola i generi e i toni: c’è l’azione, c’è tanta ironia, ma anche il dramma della violenza domestica, legata al personaggio di Alessia (Ilenia Pastorelli), la ragazza che incontra Ezio e gli cambia la vita.
«Ero un po’ impaurito a trattare il tema», ci spiega Mainetti. «Però mi ha convinto molto il fatto che, nonostante esistesse la violenza domestica, quando Alessia va a salutare il padre che non c’è più lo bacia sulla fronte. Avevamo già studiato l’abuso in “Tiger Boy” e non è così facile da raccontare. Quella scena mi ha convinto. Il fatto che nonostante tutto ha voluto bene al padre, per come la vedo io, ci spiega che è una violenza episodica. Anche questa è una back story, non siamo andati a fondo. Serve a raccontare il dolore che vive questa ragazza e che la porta a rifugiarsi in un mondo di cartoni (quelli di Jeeg Robot, che Alessia crede di ritrovare in Enzo, e che danno il titolo al film). Alessia è una ragazza molto vitale, cerca di opporsi a questa lacerazione che ha. Volevamo che Enzo la incontrasse e si riconoscesse in lei». Una delle chiavi del film è proprio questa. L’apertura al prossimo, la solidarietà arriva attraverso l’incontro con l’altro. «Altrimenti sarebbe impossibile», riflette il regista. «Come fai a cambiare davvero nel profondo? Devi avere dei rapporti con gli altri. È l’altro che ti fa accorgere di chi sei. La completa dissociazione dalla relazione ti fa sentire una persona sola, ti inaridisce nel profondo. Qui l’altro che è una sorta di grillo parlante, ti fa capire. Anche se non sono tanto le parole, quanto il rapporto che rimane addosso a Enzo».
Come accadeva in “Chronicle” di Josh Trank, che metteva in scena dei supereroi per caso che non sapevano cosa fare dei loro poteri, anche “Lo chiamavano Jeeg Robot” mette in dubbio l’assunto Made in Marvel che da grandi poteri derivino grandi responsabilità. Enzo sembra ignorarlo, e sembra usare i poteri per fini poco nobili fino a che Alessia, la vicina di casa, gli fa conoscere l’amore, e quindi anche la responsabilità, e la sua missione: aiutare gli altri. «In Italia, per le persone che hanno realmente bisogno d’aiuto, un potere di questo tipo diventa una sorta di privilegio», riflette Mainetti. «Ci piaceva l’idea di prendere questi poteri e metterli in mano a una persona che avesse tutte le ragioni del mondo per utilizzarli per i propri fini personali invece che aiutare gli altri. Perché uno che ha avuto dalla vita quello che ha avuto Enzo dovrebbe interessarsi agli altri? Questa idea ci permette di guardarci tutti quanti in faccia. Se lo può fare lui, che è quanto di più lontano dall’altruismo, lo possiamo fare anche noi». We can be heroes. Just for one day.