MA LA GUERRA NON RISOLVE NIENTE. NEANCHE DOPO PARIGI
No ai proclami, sì all'integrazione. E dialogo, nonostante le difficoltà. Il parere e le proposte delle associazioni islamiche
17 Novembre 2015
Parigi è vicina, è l’Europa, siamo noi. Noi nati in Italia, noi nati da genitori stranieri, noi arrivati da poco o da tanto. Gli attentati inevitabilmente hanno segnato le nostre comunità e forse renderanno più complicata la convivenza. O forse la faranno maturare. Ne abbiamo parlato con tre esponenti di altrettante associazioni islamiche attive a Roma.
«Condanniamo quello che consideriamo un atto terroristico senza origine né matrice religiosa, così come condanniamo tutti gli atti di questo tipo nel mondo», dice Saydawi Abdel Hamid, presidente associazione culturale Addawa, della Moschea del Pigneto. «Chi lo ha compiuto non ha religione, né cuore. Io che sono un musulmano praticante non sono riuscito a capire il pensiero di queste persone. Non si tratta di persone di fede. Non si tratta di musulmani praticanti. Non si tratta di esseri umani».
Anche secondo Abdessamad El Jaouzi, presidente di Cgim-Cantieri italo-marocchini: «i fatti di venerdì sono stati la dimostrazione più evidente della disumanità di persone che non riesco a definire tali, contro l’umanità di tutte le vittime. Tutti hanno un intelletto che può essere usato per fare il bene o il male, ma fare il bene è difficile, il male è un virus che si ripercuote sulle persone, sui luoghi, nel tempo. Il primo effetto del male è che la paura ti travolge. Il tentativo di atti come questi è distruggere il lavoro di persone che cercano di costruire integrazione. Credo che questi soggetti che, forse per le motivazioni legate alla guerra, sfruttano il nome di una religione, appartengano in realtà ad una religione nuova, ad una setta oscura che vuole diffondere il male. Laddove tutte le altre religioni dialogano, loro vogliono disgregare un modello di convivenza anche difficoltosa costruita nel tempo, una coesione sociale a cui le associazioni lavorano con impegno. Devono essere sradicati perché ogni persona ha il sacrosanto diritto di vivere liberamente, in pace, come e con chi vuole».
«Mi spiace per tutte le vittime», dice Gaoussou Ouattara del Movimento degli Africani. «Non posso accettare che persone che escono per andare a divertirsi finiscano in questo modo per la rabbia di qualcuno. Soffro per loro e per tutti quelli che ogni giorno in ogni parte del mondo – Kenya, Egitto, Somalia che sia – vengono condannati allo stesso modo. E purtroppo temo che dobbiamo aspettarci che succeda ancora, anche se spero che i fatti mi diano torto».
Le ricadute sulle comunità
Secondo Gaoussou Ouattara, «Le comunità africane hanno già pagato e stanno pagando per tutto questo. Prima di tutto perché gli africani sono tra le vittime. In secondo luogo perché le misure speciali adottate dalla Francia alimentano la rabbia degli ultrà. E quindi aumenta l’intolleranza. È una reazione umana, anche se non del tutto giustificabile».
È meno pessimista Saydawi Abdel Hamid: «oramai le persone hanno capito che tutto questo non appartiene alla gente che vive qui. Non si può far del male in nome di Allah o di Dio. Nessun Profeta al mondo ha predicato questo tipo di atti: è l’uomo che distorce la religione per affermare se stesso e le sue idee. Dopo l’11 settembre abbiamo sofferto molto anche noi delle conseguenze dell’attacco alle Torri gemelle Gemelle, perché le persone non avevano capito, ma ora hanno compreso che un musulmano praticante non può fare gesti simili».
Per Abdessamad El Jaouzi, «il male prodotto è un male diffuso che tocca tutti, e noi stranieri abbiamo paura, ma la paura non deve fermarci. I titoli dei giornali, in questo senso, non aiutano, anzi creano sospetti tra le persone. Certo c’è disorientamento, ma abbiamo fiducia nelle istituzioni e nel Paese. Quello che mi preoccupa è che ci stiamo abituando alle guerre e alla morte. La religione è un atto privato di una persona nei confronti del proprio Dio, ed è altro rispetto alla vita pubblica, sociale e civile. Da questo punto di vista un ruolo fondamentale è delle scuole: valorizzare il legame tra scuola e volontariato fa crescere la società».
La sicurezza e il dialogo
Le reazioni – della Francia e degli altri Paesi, compreso il nostro – fino ad ora sono state sul piano della sicurezza. E questo «è giusto, da parte del Governo», sostiene Saydawi Abdel Hamid. «ma, a differenza dell’altro attentato a Parigi – quello al giornale satirico Charlie Hebdo del Gennaio scorso – ho visto meno preoccupazione nelle persone. In questi casi il problema sono i mass media, che gettano benzina sul fuoco. Da questi vorrei maggior attenzione perché non si può rischiare che i musulmani in Italia rivivano ciò che hanno vissuto dopo l’11 Settembre».
«Certamente costruire un nuovo modo di comunicare, usare un nostro linguaggio contro il loro linguaggio della violenza» è la giusta reazione secondo Abdessamad El Jaouzi. «Ci deve essere una responsabilità comune nella difesa del diritto di vivere in pace. Noi non vogliamo che accada nulla nel nostro Paese e tutti devono fare la loro parte. Non servono solo proclami, ma fatti di coesione sociale. La sicurezza è fondamentale perché bisogna garantire incolumità e libertà, ma deve esserci un lavoro congiunto di costruzione e promozione di coesione sociale, che parli a fatti, dimostrandosi più viva e più forte per tutti».
E poi bisogna cercare a tutti costi il dialogo, anche se sembra impossibile. Ne è assolutamente convinto Gaoussou Ouattara: «non credo che qualcuno sia nato per fare il terrorista. Se noi isoliamo queste persone, pensando che è impossibile sedersi a un tavolo con loro perché non sono democratici, loro continueranno ad attaccare. Il dialogo è difficile, ma non è impossibile. Se noi occidentali diciamo no, come possiamo risolvere il problema? Dopo l’11 Settembre l’America ha scelto la guerra, ma non ha risolto niente. Il dialogo non è l’arma dei deboli, ma l’arma dei forti. Usare la violenza è facile e loro vogliono che noi reagiamo come la Francia, ma noi dobbiamo dimostrare che siamo diversi da loro. Non possiamo sospendere la democrazia, non possiamo adottare il loro modo di risolvere i problemi: la violenza. Questo mi fa soffrire».
Viviamolo anche in casa nostra, il dialogo. Che peraltro è nello spirito del volontariato. «Tutto questo non fermerà la nostra attività di volontariato, espressione massima della donazione delle persone verso gli altri. Un concetto che dovrebbe diffondersi in ogni livello sociale e dovrebbe essere da stimolo ai giovani: in questo modo si possono abbattere le barriere e trovare delle verità invece delle menzogne che il sistema mediatico contribuisce a costruire», conclude Abdessamad El Jaouzi. «Nessun cambiamento nello stile di vita, quindi, ma ancora maggior impegno nel nostro lavoro. Quello che possiamo fare come associazioni è diffondere pensieri che abbattano le difficoltà che causano disgregazione, dobbiamo dimostrare una coesione sociale ancora più forte. È una responsabilità di tutti, tutti devono sentirsi coinvolti nella lotta contro il male».