UN NUOVO WELFARE E UNA NUOVA MENTALITÀ, PER USCIRE DALLA CRISI
Michele Tridente, vicepresidente per i Giovani dell'Azione Cattolica, commenta il Manifesto della Società Civile per un nuovo Welfare
26 Aprile 2020
«Ad ogni crisi ci sono due risposte possibili: diventare individualisti o contare maggiormente sulla fraternità. Credo che la seconda sia la via per l’uscita definitiva, ma richiede soprattutto un cambiamento di mentalità». Michele Tridente, economista, è Vicepresidente nazionale Giovani dell’Azione Cattolica Italiana e ci parla del Manifesto della Società civile per un nuovo Welfare, che ha contribuito a costruire.
«Questo documento nasce da un’alleanza preesistente», spiega. «L’Azione Cattolica da tempo lavora insieme alla Rete Italiana di Economia Solidale, al Consorzio Sale della Terra e a diversi partner, come Next, su diversi progetti, tra cui uno finanziato da Fondazione con il Sud, con il fine specifico di aiutare gli attori del Terzo settore sul territorio a supportare chi vive in condizioni di marginalità e povertà, soprattutto adolescenti e ragazzi.
Questo appello, nello specifico, nasce dalla preoccupazione che i corpi intermedi, e in particolare le reti di Terzo settore sul territorio – che da sempre di occupano di povertà e, nella logica della sussidiarietà, non solo supportano le persone in difficoltà, ma costituiscono anche un motivo di risparmio economico per le istituzioni – vengano esclusi da un percorso comune della cosiddetta fase 2, almeno nella fase di pensiero e quindi normativa».
È un timore che paventate o è già così?
«È legittimo che in una fase di emergenza si prendano tutte le precauzioni emergenziali, che necessitano anche di una velocità di decisione: la presenza di task force e commissari, nella fase 1, è una risposta che ci aspettiamo. È meno legittimo che in una fase 2 e poi in una fase 3, che dovrebbe essere quella di ripartenza ritorno alla vita normale del Paese, quegli enti che danno una grande mano alle istituzioni, nel prendersi cura delle situazioni di povertà, restino esclusi e si trovino a dover fare i conti con soluzioni e situazioni decise da altri, che potrebbero non conciliarsi con le realtà concrete in cui operano. Non è una rivendicazione, una pretesa di voler sedere a tavoli, ma una richiesta di essere coinvolti per offrire un patrimonio di esperienze che c’è già».
Nel documento si fa riferimento sia alla perdita di legami sociali che alla povertà, in conseguenza della crisi. Qual è la priorità?
«Crediamo che le due cose vadano insieme. Non si può pensare di uscire da questa crisi ritornando agli stessi modelli di prima. Più volte, sia nell’appello, sia nelle proposte concrete a cui stiamo lavorando, al centro mettiamo un cambiamento del modello di sviluppo. Mai come in questo momento ci siamo resi conto che l’attuale modello economico non funziona e rischia di creare “scarti”, per usare un’espressione cara a Papa Francesco.
Chi era povero prima rischia di essere oggi ancora più povero, e in più questa crisi genererà tanti nuovi poveri: piccoli imprenditori, commercianti… Si allargherà la platea di persone che avranno la necessità di usufruire di strumenti di integrazione del reddito o comunque di supporto da parte dello Stato. Quindi indubbiamente c’è un primo livello emergenziale e di dignità, che chiede di rispondere a bisogni materiali. Però c’è anche un secondo livello, ugualmente importante: rafforzare legami sociali che rischiano di essere messi in discussione».
Il documento accenna a due problemi: il populismo e la criminalità organizzata. È in pericolo la nostra democrazia?
«Ci sono due livelli. Le libertà fondamentali sono garantite dalla Costituzione e in emergenza vanno contemperate giustamente con il diritto alla salute: bisognerà vigilare, nella fase di uscita dall’emergenza, che non ci sia una restrizione delle libertà individuali. Credo che il nostro ordinamento democratico, e in particolare il fatto che si sia il controllo del Parlamento, che giustamente viene più volte richiamato in questi giorni, sia un buon presidio. Il rischio che denunciamo nell’appello è anche di altro tipo: il fatto cioè che ci sembra che a volte una certa miopia di alcuni Stati d’Europa fornisca un’arma in più alle forze populiste, che puntano a minare i fondamenti dello stare insieme come Paesi europei. L’invito è che l’ Europa risponda non isolando chi sta peggio, ma con una mutualizzazione e con la solidarietà, in questo momento sul versante degli aiuti economici e poi per creare un’Europa sempre più unità e sempre più vicina.
L’altro rischio che poniamo è quello della criminalità organizzata, rischio molto chiaro e differenziato nelle diverse zone del Paese (anche se è ormai dappertutto). Èchiaro che, laddove ci sono più poveri e dove lo Stato fa più fatica a rispondere ai bisogni sempre crescenti dei cittadini, la criminalità organizzata trova terreno fertile per rispondere a quei bisogni e chiedere poi qualcosa incambio. Il coinvolgimento del Terzo settore, con la sua capillarità sul territorio, significa anche questo: affidiamo i nostri poveri alle forze buone del territorio, evitando che la criminalità organizzata si inserisca nei molteplici livelli di povertà materiale e educativa e in tutte le sue forme».
Si sono visti segnali pericolosi, in queste settimane, di divisione tra Nord e Sud e non solo da parte di Feltri. Divisioni che forse credevamo superate. Perché fa così fatica ad essere un Paese unito?
«In un Paese in una situazione particolare di crisi, rischiano di acuirsi differenze strutturali che ci portiamo avanti dall’unità di Italia, con tutto il corredo di accuse reciproche, scomposte come quella di Feltri, che lascia il tempo che trova, ma ben coagulate in altri casi. A mio avviso è anacronistico pensare che in un mondo globalizzato, in cui le relazioni multilaterali, seppure difficili e complesse, prendono sempre più piede, si possa pensare a ad un’Italia frantumata, in cui ciascuno trova la propria risposta autarchica ai problemi».
Quindi anche l’autonomia differenziata, tema in qualche modo surgelato dalla crisi, ma che riemergerà, va nella direzione della frantumazione?
«Quello sull’autonomia è un discorso molto complesso ed è corretto pensare ad una vicinanza delle istituzioni ai cittadini su un territorio molto differenziato, come quello italiano. Le differenze sono molte, e quindi lo sono le distinzioni e le azioni da intraprendere. Tuttavia bisogna evitare che questa legittima vicinanza ai cittadini diventi un forma di autonomia, che diventa mancanza di solidarietà tra diverse zone del Paese. Non serve a nessuno – né a chi sta meglio, né a chi sta peggio – un Paese a diverse velocità».
State lavorando a proposte concrete per il nuovo welfare?
«Non vogliamo fermarci a questo appello e come rete ci siamo messi al lavoro su proposte concrete, che stiamo definendo. Una prima proposta riguarda i budget personalizzati di uscita dalla crisi, che budget rappresentano in qualche modo un programma attraverso il quale famiglie, persone, imprese vengono aiutate non solo economicamente, ma anche attraverso un programma di assistenza, con il coinvolgimento dei servizi sociali e delle varie anime del Terzo settore. Le politiche sociali del Comune quindi dedicano un badget ai nuclei familiari, con l’obiettivo, ad esempio, di aiutarli ad avviare nuove imprese oppure a riconvertire imprese esistenti.
Una seconda proposta è l’applicazione dei budget di salute e la loro estensione a tutta Italia: sono dei progetti di presa in carico dei soggetti più fragili, a partire dagli anziani, che vedono una cooperazione tra Comuni e Asl e organizzazioni non profit, con lo scopo di evitare il rischio che vadano solo a pesare solo sui grossi ospedali e sulle case di riposo.
Un’altra proposta riguarda la necessità di individuare strategie di contrasto alla povertà educativa, emersa forte in questo periodo. Ci sono tantissimi ragazzi e adolescenti che, sia dal punto di vista del digital divide, sia dal punto di vista della possibilità di essere aiutati dalle famiglie, hanno sofferto in modo particolare il fatto di non poter andare a scuola. Stiamo cercando di ragionare su come rispondere al problema della povertà educativa, che non è soltanto un problema di strumenti, ma anche una questione di alleanza tra scuole e famiglie. Non si risolve dando un computer o una rete internet a chi non ce l’ha: è necessario un coinvolgimento delle famiglie nell’accompagnamento dei ragazzi».
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