“MELILLA, LA FRONTIERA DELLA VERGOGNA”, VINCE A CAPODARCO
A Capodarco L’altro festival sono stati premiati “Melilla, la frontiera della vergogna” e “Bastione M.”, che raccontano l'inferno delle migrazioni.
02 Luglio 2015
I muri, le barriere, le frontiere. Quelle ideologiche, ma anche e soprattutto quelle fisiche. Sono il nervo scoperto dei nostri tempi, il nodo irrisolto, il fulcro del dibattito. E sono state anche al centro delle opere più significative di Capodarco L’altro festival, l’importante rassegna di cinema sociale che si è svolta dal 22 al 27 giugno a Capodarco di Fermo. La storia della frontiera di Melilla, enclave spagnola in Marocco, e con Ceuta unica frontiera di terra tra Europa e Africa, è stata al centro di due opere premiate, catturando così l’attenzione più di ogni alta storia. “Melilla, la frontiera della vergogna” di Francesca Nava, ha vinto il premio nella categoria videocortometraggi della realtà, e “Bastione M.”, di Andrea Cocco, Marzia Coronati e Marco Stefanelli, prodotto da Amisnet, ha ottenuto il riconoscimento nella sezione degli audiocortometraggi.
La frontiera della vergogna
«Melilla, la frontiera della vergogna» è un classico reportage giornalistico, prodotto da Magnolia e andato in onda a Piazzapulita, su La7. Ma ci mostra immagini che neanche il più ispirato film di fantascienza ambientato nel futuro, ci ha mai mostrato. Melilla è territorio spagnolo, ma si trova in Marocco: per migliaia di migranti è avere l’Europa a un passo, senza dover affrontare il mare. Ma a separarli dai loro sogni ci sono tre reti parallele di acciaio e filo spinato, alte nove metri, che corrono lungo 12 chilometri. Intorno a questo muro si accatastano migliaia di storie, di sogni, di vite che non sempre potranno continuare. Ci sono i migranti che da tutta l’Africa arrivano qui per tentare di scavalcare queste altissime barriere. Spesso perdono la vita nel tentativo di farlo. O spesso la perdono dopo, quando la guardia civil spagnola li rimanda indietro, senza alcun processo di accertamento sul loro diritto d’asilo, e quindi in modo illegale, e li lascia in mano alla polizia marocchina, che spesso arriva anche a ucciderli.
Gli intervistati ci mostrano i segni che portano sul corpo, le ferite che si procurano nello sfidare le reti. L’altro lato della medaglia sono le centinaia di persone in attesa di varcare il confine, attraverso i tornelli, solamente per prendere un bagaglio pesantissimo e trasportarlo al di là del confine, dove proseguirà verso l’Africa. Sono le cose usate, quelle che noi pensiamo di donare ai meno abbienti, e che invece vengono vendute: in base a un accordo del 1985 alla frontiera è tollerato il trasporto a piedi di quello che una persona riesce a caricarsi. E per molti, al confine di Melilla, questo diventa un lavoro: si ammassano al confine al mattino presto, per arrivare prima di là e portare in Africa qualcosa. Sono fardelli pesantissimi, e spesso a portarli sono donne anziane, malate, ferite.
L’immagine simbolo della situazione che viviamo è mostrata dal presidente di un’associazione spagnola, un’istantanea che raffigura delle persone che giocano a golf in un campo di Melilla, e sullo sfondo dei migranti a cavalcioni sulla rete. È l’immagine dell’indifferenza. Nel reportage di Francesca Nava vediamo, come poche volte avevamo fatto prima, la disperazione allo stato più puro. È un girone dantesco, un far west apocalittico e incredibile.
“L’impresa” e la vita
Appartiene invece al cinema di finzione più classico il corto che ha vinto nella sezione videocortometaggi di finzione, “L’impresa” di Davide Labanti: fotografia patinata e oscura al punto giusto, inquadrature studiate e attori di razza, come Giorgio Colangeli e Franco Trevisi. Tocca un altro nervo scoperto dei nostri tempi, quello del mondo del lavoro: al centro del film c’è un’azienda, dove gli operai non percepiscono più lo stipendio da mesi, scelta obbligata per non vendere o delocalizzare l’attività. In un crescendo di tensione e attesa, vedremo un mondo dove non è tutto bianco o nero, e dove imprenditore e lavoratori non sono più su due barricate opposte, ma forse sono dalla stessa parte. Perché l’impresa è la vita di tutti.
Ma ci sono anche toni più leggeri, tra le opere premiate al festival. Sono quelle legate al mondo dei bambini. Come “Shame and Glasses” di Alessandro Riconda, che ha vinto il premio nella sezione video cortissimi. È la storia di un bambino che si vergogna ad indossare gli occhiali. Il punto è che deve farlo, altrimenti non riuscirà a venire a capo della verifica di storia. Ma così lo vedrà anche la bambina di cui è innamorato.
Ci sono dei bambini, e dei ragazzi, al centro di “Dear Future Mom”, la famosa campagna di Coordown girata da Luca Lucini, premiata come migliore campagna sociale diffusa prevalentemente sul web, che “Reti Solidali” vi aveva presentato in occasione del suo lancio. L’idea nasce dalla lettera di una mamma in attesa di un figlio con sindrome di Down, che aveva scritto a Coordown chiedendo che futuro potesse avere il figlio. La risposta l’hanno data molti bambini e ragazzi direttamente a lei, filmati nella loro simpatia e nella loro naturalezza dalla mano esperta di Lucini, per un risultato commovente e disarmante.
Fa sorridere, invece, la campagna “Puliamo il mondo”, realizzata da Andrea Tubili per Legambiente, che ha ottenuto il premio Ecopneus, dove, sulle note di “Eine kleine nachtmusik” di Mozart, vediamo animali, grandi e piccoli, all’opera per pulire il mondo dai rifiuti. Migrazioni, lavoro, disabilità, ambiente sono i temi che hanno toccato le opere premiate. Ma il racconto del mondo di oggi attraverso il sociale non si è fermato qui. Tra le opere finaliste si è parlato anche di Isis, il virus Ebola, il riciclo e la sostenibilità, i crimini ambientali, il carcere, l’adozione.