RIETI. Il PROGETTO SANT’ERASMO, CHE AIUTA A RIMETTERSI IN CARREGGIATA
Volontariato e carcere/3: Un progetto che nasce da Il Guazzabuglio ODV per il recupero e reinserimento dei detenuti, grazie alla messa alla prova
02 Agosto 2021
«A volte il treno sbagliato può portarti nel posto giusto». È una frase di Paolo Coelho che identifica bene Sant’Erasmo – Accoglienza socio affettiva riabilitativa alternativa, il progetto che nasce da Il Guazzabuglio ODV, organizzazione di volontariato di Rieti che si occupa di emergenza alimentare, povertà e disabilità. E ora anche della messa alla prova, della riabilitazione e della cancellazione della pena dei detenuti. «Attraverso uno sbaglio queste persone arrivano nel posto giusto» spiega Federica Paolucci, per tutti Nanina, presidente de Il Guazzabuglio. «Quando noi chiudiamo un verbale, la nostra più grande vittoria è essere riusciti nel percorso. Aver peso in carico una persona e averla presentata al tribunale con un’autostima più alta. Con la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono». Il progetto è un parallelo a tutte le attività dell’associazione. «Abbiamo voluto diversificare nel tempo i nostri interventi nel sociale, allargando le nostre vedute», ci racconta Nanina. «Ci sono utenti che volontariamente o involontariamente, o anche per altri fattori, hanno compiuto degli errori. Che magari in passato si potevano sanare attraverso il carcere o gli arresti domiciliari. Il mondo va verso pene alternative, che non chiudano in una struttura carceraria i detenuti, ma che traccino percorsi alternativi di alta valenza sociale che li faccia uscire migliorati. Il carcere, di certo, non li migliora».
Perché la messa alla prova
Ci sono una serie di associazioni, come Il Guazzabuglio, che sono convenzionate con il tribunale per progetti importanti dedicati alla persona messa alla prova attraverso i LPU, i lavori di pubblica utilità. «Se un utente compie un reato c’è la possibilità di farlo partecipare a un percorso alternativo al carcere», spiega la presidente. «Così si presenta davanti al giudice con il proprio avvocato chiedendo di essere messo alla prova, con lavori di pubblica utilità», spiega Nanina. «Ma deve avere un foglio dell’associazione che attesti la disponibilità ad accoglierlo».
A volte si presenta questa richiesta nella fase precedente alla condanna, altre volte persone già condannate in di primo grado, attraverso questa possibilità, puntano alla cancellazione della pena. «Prima della condanna chiedono di essere messi alla prova», spiega Nanina. «Se il progetto presentato viene giudicato possibile, il tribunale di sorveglianza decide di accoglierlo. Tutti insieme ci sentiamo e sosteniamo questa road map sociale, cercando di andare incontro alle peculiarità dell’utente. Se è una persona che ha sempre fatto lavori manuali, cerchiamo di impiegarlo in quelli. Chi ci sa fare con i giovani lo impieghiamo in progetti relativi a lavori di convivialità con ragazzi».
Viene cancellato un marchio
Il tribunale stabilisce un monte ore giusto affinché venga scontata la pena per il reato. L’utente firma l’ingresso, l’uscita, si verbalizza in un giornalino di bordo l’attività di quel giorno. «È una sorta di progetto di riabilitazione, di inclusione sociale a più facce», spiega la presidente. «Ci sono un educatore, un tutor, un ragazzo fragile e un utente messo alla prova. Serve un collante tra loro per amalgamarli, farli avvicinare. Far capire loro che non esiste solo la strada nera ma anche quella bianca e attraverso la bianca possono uscire da quella nera.
Otto casi su dieci ci premiano. Queste persone arrivano alla cancellazione del reato e hanno la fedina penale pulita. Viene cancellato così un marchio che può condizionare tutta la loro esistenza».
In questo senso Il Guazzabuglio ha vinto un altro bando per un progetto, Oltre il cortile. «Da sempre la parola cortile ci fa pensare a uno spazio delimitato da cui ci sembra impossibile uscire» spiega Nanina. «Questo progetto allarga il nostro operare a favore delle persone che, attraverso percorsi speciali sociali particolari, si vogliono riabilitare. È una strada che collega il loro mondo nero al nostro».
Chi ci troveremo di fronte
Ci vuole coraggio, lungimiranza, una sensibilità molto particolare per rendersi parte di un percorso di riabilitazione come questo. «Oggi molte associazioni si rifiutano di accogliere queste persone perché non hanno personale specializzato per seguirle», spiega la presidente. «E perché hanno sempre paura di non poter gestire la situazione, per l’incognita delle persone. Non sappiamo mai chi troveremo di fronte a noi. Ci può essere una persona remissiva, che ha capito di aver sbagliato, ma anche no. Spesso gli avvocati girano, ma non trovano associazioni. C’è gente che arriva da noi dall’Umbria e, in generale, molte persone che arrivano da fuori regione. Possibile che in tutta una regione non si trovi un’associazione?»
«Quando ci chiamano non mettiamo un limite al soggetto» continua. «Lo vogliamo incontrare, in un colloquio conoscitivo, con un educatore e la psicologa. Siamo vestiti tutti con la stessa maglia, perché l’utente deve avere la scioltezza di essere quello che è normalmente. È lui che ci racconta quello che è capitato, ed è portato a dire i punti di debolezza piuttosto che quelli di forza. Spesso hanno problemi economici, lavorativi. La maggior parte è straniera. Non hanno compiuto grandi reati. Spesso è la guida in stato di ebbrezza, o il mancato pagamento di assegni di mantenimento. Anche se a volte ci sono stati reati di lesioni colpose».
L’importanza di umanità ed empatia
Il lavoro fatto sul dialogo, sull’incontro con le persone da accogliere, è allora fondamentale. Servono professionisti, ma anche persone con una certa umanità ed empatia. «Facendo parte di un progetto a livello regionale siamo obbligati dalla legge ad avere uno staff tecnico di qualità, educatore e psicologo», spiega Nanina. «Ma questo non dà per scontato che siamo legati a una grande e profonda umanità verso il prossimo. Abbiamo scelto persone che hanno sempre lavorato nell’ambito della strada. Persone capaci di leggere nell’interiorità di questi soggetti». «La chiave di lettura è un buon 40% nella riuscita di un progetto» continua. «Se riusciamo a capirli, riusciamo a salvarli. Devi essere una psicologa nata: a volte trovi davanti facce pulite che nascondono personalità contorte. A volte ci sono persone che sembrano difficili da trattare, troppo forti, toppo briose. E magari sono le persone che rimangono nell’ ODV e continuano a fare volontariato. E diventano i nuovi volontari».
Un aiuto per la microfattoria
E nel progetto Sant’Erasmo ci sono delle belle storie di messa alla prova. «Un ragazzo di 21 anni di origine nigeriana, giovane e brioso, ha partecipato alla remise en forme della nostra microfattoria» (ne abbiamo parlato qui) ci rivela Nanina.
«Arriva al sabato, e insieme a lui abbiamo fatto le palizzate nuove, e ora si occupa di trasferire i nuovi animali nelle piccole strutture». «L’educatrice lo spinge a parlare italiano» continua. «Mentre lavora ha uno stimolo a imparare la nostra lingua. La sua è una formazione. Serve a capire che integrarsi vuol dire non dimenticare le proprie origini ma integrarle con gli usi e costumi del paese che li ospita. Molti dei ragazzi sono stranieri e musulmani, i nostri usi e costumi sono molto distanti. Diciamo loro: “non stiamo chiedendo a voi di dimenticare ciò che siete o da dove venite, ma vi diamo la possibilità di arricchire il vostro bagaglio con una nuova lingua e nuovi modi di cucinare”. È un discorso che facciamo mattina e sera».
Una donna che aiuta le donne
Nella storia del progetto Sant’Erasmo c’è anche una ragazza, una minore vicina alla maggiore età.
«È una ragazza giovane, straniera», racconta Nanina. «È una studentessa e abbiamo pensato di impegnarla al magazzino. Si occupa delle derrate alimentari destinate ai bambini, i pacchi solidali per le mamme di bambini da 0 a 3 anni. Controlla le scadenze, si occupa di pannolini e omogeneizzati. È un lavoro di psicoterapia di emergenza. È così giovane da averte tutte le possibilità di rimettersi in carreggiata. Le abbiamo detto: sei tu che puoi dare tanto a queste mamme sole. Fa del bene alle mamme una donna per le donne».
A volte ritornano
Un’altra storia di messa alla prova che arriva dal progetto Sant’Erasmo fa sorridere. «È quella di un uomo che ha avuto tre mogli, non ha mai pagato gli alimenti e lo hanno denunciato», racconta Nanina. «Si è dedicato ai lavori socialmente utili ripetutamente. Quando veniamo ricontattati ormai ci viene da sorridere… è lui che ci chiede: “se avete un posto…” È un omone grande e grosso, una forza lavoro non indifferente nella cura degli alberi. È un esperto nella cura del green. È uno di quelli che qualche volta ci ha dato la mano a prescindere dalla fine del primo percorso. È entrato in quel circuito mentale in cui donare agli altri aiuta se stessi».
Leggi anche: “Sex Offenders e transgender: in carcere una doppia condanna“.
3 risposte a “RIETI. Il PROGETTO SANT’ERASMO, CHE AIUTA A RIMETTERSI IN CARREGGIATA”
Fantastico giornalista che raccoglie ed accoglie lontane e nascoste realtà do piccoli borghi dell’entroterra…..
Alla scoperta dei circuiti virtuosi.
Fantastica realtà locale!
Molti volontari.
Grazie!
Il carcere non salva.
La natura siiiii