MIGRANTI, IL CENTRO ASTALLI PRESENTA IL RAPPORTO 2019

Nell’ultimo anno Centro Astalli ha sostenuto 25mila persone in tutta Italia, la metà a Roma. Padre Ripamonti: «Il decreto sicurezza ostacola l'accoglienza»

di Giorgio Marota

Nel 2018 gli sbarchi in Italia sono diminuiti dell’80%. Nel frattempo, come evidenzia il Centro Astalli nel suo rapporto annuale presentato ieri, giovedì 4 aprile a Roma, sono aumentate precarietà, disagio sociale e marginalizzazione. E c’è di più: secondo lo stesso rapporto il calo degli arrivi (116 mila in totale) non può essere considerato una buona notizia in relazione al fatto che muore più gente in mare rispetto a prima e che l’85% dei migranti intercettati nel Mediterraneo sono stati riportati in Libia e lì detenuti in condizioni che le Nazioni Unite definiscono inaccettabili. «Un’offesa terribile per il genere umano» l’ha definita il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. «Chiudere i porti e rimandare la gente in Paesi non sicuri significa avere sulla coscienza delle vite umane. Chi si prende questa responsabilità? Nel 2017 i morti erano 26 ogni mille, l’anno scorso si è saliti a 35 ogni mille, e quest’anno si potrebbe arrivare a 100 ogni mille». Duro anche il parere del numero uno della CEI sul decreto sicurezza voluto dal vice premier Matteo Salvini, descritto come «insufficiente, da rivedere assolutamente». Poche ore dopo lo stesso Salvini ha relicato: «Spero che nessuno abbia nostalgia dei 600mila sbarchi degli ultimi anni, dei miliardi sprecati, dei troppi reati, delle migliaia di morti del passato». Chiesa e Governo restano su visioni diametralmente opposte.

 

IL CENTRO ASTALLI. Cosa fa la Chiesa per l’immigrazione? Dal rapporto, illustrato alla presenza di Laura Baldassarre, assessore alla Persona, Scuola e Comunità solidale di Roma, è emerso che Centro Astalli, la sede italiana del servizio dei Gesuiti per i rifugiati, nell’ultimo anno ha accompagnato circa 25 mila persone in tutta Italia. Di questi la metà nella Capitale, accogliendone 1000 nei centri dislocati su tutto il territorio nazionale. Provengono soprattutto da Mali, Gambia, Guinea, Senegal, Costa D’Avorio, Nigeria, Somalia, Afghanistan, Eritrea e Iraq. Ai migranti vengono forniti diversi servizi: l’accettazione, la mensa alla Chiesa del Gesù di Roma in cui sono stati distribuiti 54 mila pasti, l’ambulatorio (un presidio sanitario di primo soccorso), il centro di ascolto e orientamento socio-legale, la scuola di italiano (nel 2018 attivate 7 classi con 162 iscritti), la comunità di ospitalità, l’accompagnamento di persone vulnerabili che presentano traumi psicologici, psichiatrici e sanitari e i centri di accoglienza, tra cui quelli per minori e donne con bambini come “la casa di Giorgia” di via Laurentina o “la casa di Maria Teresa” a via di Villa Spada.

 

centro astalli
Foto tratta dalla pagina FB Centro Astalli

Sono stati avviati o conclusi 11 differenti progetti, con attività finalizzate all’inclusione sociale dei soggetti più vulnerabili come minori non accompagnati, nuclei familiari monoparentali e persone con traumi. Tra questi quello dell’accoglienza diurna per persone in condizioni di marginalità sociale, finanziato da Roma Capitale e inserito nel “Piano freddo” e nel “Piano caldo” della città: ogni mattina, nei mesi invernali e in quelli estivi, sono stati consegnati cibo, vestiti, medicinali e coperte a richiedenti e titolari di protezione internazionale privi di fissa dimora. Ci sarebbero tanti altri dati da evidenziare nel lavoro svolto dal Centro Astalli sul territorio. Eccone alcuni: l’intensa attività nelle scuole ha raggiunto 27.124 studenti, sono stati coinvolti più di 600 volontari e, per tenere viva questa rete, soltanto a Roma hanno investito 2,9 milioni di euro. È stata avviata anche una collaborazione con altre 29 congregazioni religiose che hanno ospitato 143 persone di 16 differenti famiglie. «Ma intorno a noi continuiamo a percepire un clima ostile e di forte preoccupazione» ha commentato Camillo Ripamonti, presidente di Astalli. «C’è una chiara volontà politica di non affrontare realmente le cause e le soluzioni della questione migratoria e quando lo si fa avviene in maniera strumentale. L’integrazione è sempre stata una preoccupazione del sistema pubblico di accoglienza, oggi con il decreto sicurezza l’accesso nei centri è finalizzato all’attesa di una valutazione delle domande d’asilo da parte della Commissione Territoriale. Non è previsto l’insegnamento dell’italiano, non c’è sostegno alle persone. La cancellazione del permesso umanitario è qualcosa di drammatico». Al suo posto, nel decreto, sono stati introdotti alcuni permessi detti “casi speciali”, concessi a chi ha bisogno di cure mediche (condizioni di salute particolarmente gravi tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione), per chi proviene da un Paese in situazione di “contingente ed eccezionale calamità” e per chi si sarà distinto per “atti di particolare valore civile”. L’abolizione della protezione umanitaria, il complicarsi delle procedure per l’ottenimento di una residenza e, più in generale, il moltiplicarsi di ostacoli burocratici a tutti i livelli finirebbero, secondo il rapporto, per escludere un numero crescente di migranti dai circuiti d’accoglienza e dai servizi.

 

«SONO SEMPRE STATO UN RIFUGIATO». Come Karamoko Sako, un ragazzo ivoriano che ha visto morire il padre e la madre durante la guerra civile, nel 2002. Fuggito in un campo profughi, in Liberia, ha ottenuto lo status di rifugiato e proseguito gli studi liceali e successivamente universitari. Nel 2011 un’epidemia di Ebola l’ha costretto a scappare di nuovo. I suoi piedi l’hanno portato fino in Libia («lì lavoravo gratis 14 ore al giorno e sono stato picchiato duramente tante volte») la costa da cui partono le speranze di un futuro migliore verso l’Italia. Ha trovato nel mare l’unica possibilità di salvezza, «anche se quelle 36 ore di viaggio sono state un inferno perché sul gommone entrava acqua da tutte le parti». In Italia si arrangia come può facendo il pane di notte e studiando la lingua di Dante di giorno. Vive per integrarsi e sogna di diventare ingegnere, ma sarà difficile farsi riconoscere gli studi precedenti senza un passaporto. «Non ce l’ho perché sono sempre stato un rifugiato, fin da bambino».

 

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