MIGRANTI FORZATI E DISAGIO MENTALE: LA TEMPESTIVITÀ SALVA LA VITA
La fuga da guerre e dittature, i viaggi fatti di violenza, le incertezze all'arrivo rendono i migranti vulnerabili. Intercettare subito il disagio è decisivo
03 Agosto 2018
I richiedenti e titolari dello status di rifugiato sono persone costrette ad abbandonare il proprio paese per sottrarsi a persecuzioni e a contesti sociali e culturali determinati da guerre o dittature. È un concetto scontato questo, ai limiti del banale, ma ai tempi delle fake news è bene ribadire anche le ovvietà. Chi parte lo fa perché non ha altre alternative e spesso il viaggiatore finisce in un contesto peggiore di quello che si è lasciato alle spalle.
Il viaggio si rivela pericoloso, a volte mortale: situazioni di sfruttamento, violenza e detenzione sono solo alcuni degli episodi che si verificano durante il percorso migratorio. Chiunque intraprenda un viaggio di questo tipo difficilmente non ne sarà segnato nel profondo, per questo motivo la popolazione migrante, in special modo quella dei forzati, è più a rischio di sviluppare sintomatologie psicopatologiche.
Una crescente attenzione rivolta alla cura del disagio mentale ha dato origine, lo scorso anno, alla pubblicazione delle Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato all’interno delle quali si pone l’accento sulle vittime di tortura, queste ultime non sempre facilmente riconoscibili, specie quando i segni sul corpo non sono visibili. È un fatto, così come si legge all’interno del testo, che “la tortura causa nelle vittime e spesso anche nei testimoni, conseguenze fisiche e psichiche di diversa gravità dipendenti principalmente dal tipo, dalla durata e dalla localizzazione delle violenze subite. Le persone esposte a gravi traumi prima e durante la migrazione presentano disturbi psichici in misura maggiore rispetto alla popolazione autoctona e ai migranti economici”.
Tra i migranti forzati, sono circa un terzo le persone che manifestano disagi mentali e, secondo i dati divulgati nel 2015 dall’Inmp ( l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà, ente pubblico oggi centro di riferimento della rete nazionale per le problematiche di assistenza in campo socio-sanitario legate alle popolazioni migranti e alla povertà, nonché centro nazionale per la mediazione transculturale in campo sanitario), le percentuali erano così ripartite: il 41,1% dei migranti manifestavano disturbi da stress post traumatico, il 22,6% erano quelli con disturbi depressivi e il restante presentava disturbi d’ansia e sindromi da somatizzazioni. Molto basse le percentuali riguardanti le psicosi( 3,9).
L’arrivo in Europa poi non sempre rappresenta un elemento di sollievo poiché “le difficili condizioni di vita che si trovano ad affrontare, sia nelle fasi di arrivo sia dopo il riconoscimento di una qualsiasi forma di protezione, possono causare il cosiddetto effetto di ‘ritraumatizzazione secondaria’ peggiorando la sintomatologia post-traumatica preesistente”.
LA TEMPESTIVITÀ SALVA LA VITA. «Nella nostra esperienza con Samifo, (Centro Salute migranti forzati)», spiega padre Camillo Ripamonti,direttore del Centro Astalli, «quello che abbiamo visto è che se non le intercetti immediatamente queste persone a volte la loro situazione rimane nascosta, perché urgenze più impellenti come la ricerca di una casa, di un lavoro o di un posto dove stare coprono tutto il vissuto della persona. Capita poi che, nel momento in cui la persona ha trovato una sua sistemazione, tutto il vissuto non gestito e non accompagnato riemerge con tale violenza da rimettere in discussione tutta la sua vita, a volte creando delle interruzioni irrecuperabili». Gli operatori che gestiscono l’accoglienza sono chiamati ad avere la sensibilità e la prontezza di intercettare e prendersi cura delle situazioni di vulnerabilità. La formazione degli operatori è necessaria perché saper cogliere avvisaglie dei disagi permette di accompagnare le persone a intraprendere un preciso percorso psicologico. Il trattamento tempestivo dei disagi evita che i disturbi da temporanei si trasformino in cronici e permette di intraprendere quei percorsi a lungo termine che favoriscono una piena integrazione. Un’attenzione ancora più marcata è quella verso le donne, le quali subiscono abusi e violenze nel «100% dei casi». Frequenti sono quelle che sbarcano sulle coste europee in stato di gravidanza o con infezioni causate da malattie trasmissibili sessualmente.
Per le categorie più vulnerabili l’attenzione deve essere ancora più alta e la capacità di gestione richiede ancor più sensibilità.
LO STATO DEI SERVIZI A ROMA. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che nei migranti forzati la salute fisica e quella mentale debbano essere trattare parimenti e che non di rado le due cose sono strettamente correlate. All’inizio del suo viaggio il migrante è in salute, è proprio nel corso del viaggio che il benessere psicofisico viene compromesso: situazioni igieniche precarie; privazioni di cibo e acqua, violenze; esposizione a situazioni continue di stress rendono l’individuo particolarmente vulnerabile nel fisico e nella mente. Il viaggio inoltre non finisce con l’arrivo in Europa; qui per i migranti forzati inizia un nuovo calvario dove l’incertezza del futuro, i tempi lunghi per la richiesta di documenti così come la mancata possibilità di ricongiungersi ai propri cari alimentano stress e depressione. Dunque, porre l’attenzione sulla condizione psicofisica del migrante è un primo passo per permettere che il processo d’integrazione abbia esito positivo. Le linee guida pubblicate lo scorso anno hanno fornito un ulteriore strumento all’accoglienza e il sistema, almeno nella Capitale, funziona. Rispetto al 2016, presso il centro Samifo, si è registrato un aumento delle visite specialistiche in psicologia e psichiatria: nel 2017 sono state oltre 2mila. Per gli operatori questo è dovuto, oltre che all’incremento delle ore di servizio, anche al numero crescente di segnalazioni da parte delle strutture di accoglienza.
«Roma da questo punto di vista ha una buona tradizione non solo come Samifo, che tratta e gestisce la salute del migrante forzato ma come rete di servizi», spiega padre Ripamonti. «Caritas, Medici contro la tortura, Dipartimento di Salute Mentale e i vari poli ospedalieri hanno costruito negli anni una rete territoriale grazie anche alla sensibilità di alcuni psicologi e psichiatri del territorio. La capacità di intercettare e accompagnare queste persone ha fatto sì che la rete del territorio romano si strutturasse e si arricchisse sempre di più di esperienze col passare del tempo. Molti attori che hanno preso parte alla stesura delle linee guida sulle vittime di tortura internazionale operano nel territorio romano, e ciò dimostra una spiccata capacità da parte delle strutture della Capitale di accompagnare, di intercettare e individuare le figure più vulnerabili».
UN NUOVO MODELLO DI COMUNITÀ. Quaranta anni fa la legge Basaglia chiudeva i manicomi e forniva una nuova chiave di lettura alla malattia mentale: il malato psichico non più matto da rinchiudere ma persona da curare. «Credo che l’anniversario della legge, in questo contesto storico, rappresenti una sfida. La legge 180 è stata la conclusione di un percorso che ha permesso di avere un’altra visione sulla malattia psichiatrica: quella di restituire dignità e umanità all’individuo. Declinando tale legge in questo contesto storico, in cui le migrazioni sono un fatto globale che coinvolge tutti, la sfida per i prossimi anni sarà quella di capire come questa visione del disagio mentale legato al tema dell’immigrazione può spronarci ad affrontare sempre meglio le problematiche relative al disagio mentale legato alla migrazione forzata». Gli italiani che soffrono di disagi psichici hanno, non tutti e non sempre, dalla loro parte una rete famigliare che sopperisce alle carenze dei servizi, un sostegno esterno che il migrante forzato con disagio psichico non ha. «L’assenza di relazioni all’interno dei territori lascia le persone totalmente sole, alcuni migranti con disagio mentale vivono abbandonati a loro stessi proprio perché manca loro questa rete di relazioni parentali. La peculiarità della condizione dei migranti forzati, i quali arrivano con questo taglio di relazioni forti che influisce sulla salute delle persone, oltre a ricordarci che non può essere solo la famiglia a fare da ammortizzatore sociale del disagio mentale sottolinea che vi è la necessità di coinvolgere la comunità intera così come era nell’impostazione della legge Basaglia», conclude il direttore del Centro Astalli, «a prendersi carico delle persone più vulnerabili.»
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