IL CERCHIO DELL’ILLEGALITÀ CHE IMPRIGIONA I GIOVANI ROM
Perché tra i minori rom è così alto il tasso di recidiva? Perché è così difficile, per loro, uscire dal circuito penale italiano?
21 Dicembre 2016
«I rom hanno sempre meno possibilità, perché sono rom. Perché non li vuole nessuno sul posto di lavoro, non li vuole nessuno nella stessa sala d’attesa, non li vuole nessuno nello stesso autobus. Il rom avrà comunque meno possibilità, in qualunque situazione andrà a trovarsi». Così la pensa un’assistente sociale di Roma, la cui testimonianza si incontra, insieme a tante altre, nel rapporto “Le Catene dell’esclusione”, realizzato dall’associazione Mama Africa.
Si tratta di un’indagine, condotta in collaborazione con Focus-Casa Dei Diritti Sociali e con il sostegno dell’Otto per Mille della Tavola Valdese, che approfondisce le ragioni della presenza massiccia dei minori rom nel circuito penale italiano. Tanti adolescenti infatti, vi entrano e faticano ad uscirne, tornando a commettere di nuovo gli stessi reati. Per capire le cause di questo circolo vizioso, la ricerca affronta uno dei problemi che da sempre coinvolge le comunità rom: l’esclusione sociale. L’obiettivo del rapporto è quindi quello di combattere il pregiudizio e rompere le “catene” dell’emarginazione, proporre percorsi di prevenzione per i minori rom che vivono nel nostro Paese e raccontare le storie di chi, concluso il percorso penale, vorrebbe cambiare rotta.
Un esperimento di peer research
“Le Catene dell’esclusione” è stato realizzato da ricercatori e operatori sociali impegnati sul territorio, ma non solo. A ricoprire un ruolo attivo, sono stati anche alcuni ragazzi rom, che nella veste di “giovani ricercatori” hanno intervistato i loro coetanei, raccogliendone le testimonianze.
Da questo punto di vista, quindi, il rapporto rappresenta un esperimento di peer research (ricerca fra pari), che ha attivato la partecipazione dei ragazzi e invertito la tendenza dominante, che vede i rom oggetto di indagini calate dall’alto.
La ricerca inquadra le condizioni delle comunità Rom, Sinti e Camminanti nel contesto nazionale e prosegue poi con tre approfondimenti, che riguardano le città di Roma, Milano e Napoli. Nel corso dell’analisi, si incontrano diverse interviste a operatori del mondo della Giustizia Minorile e del Terzo settore.
Aumentano i detenuti minori stranieri
Secondo il rapporto, in Italia si stima una presenza di Rom, Sinti e Camminanti tra i 130.000 e i 170.000. Si tratta di circa lo 0,25% della popolazione italiana, una delle percentuali più basse d’Europa. Tra questi, molti sono minori.
La percentuale dei giovani rom affidati ai Servizi minorili è molto alta, ma non sempre la loro presenza viene rilevata. Infatti, a volte i minori appaiono nelle statistiche come “detenuti stranieri”, altre volte come “nomadi”, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Da qui deriva la difficoltà oggettiva di reperire dati organici. Sappiamo, però, che in Italia gli utenti nomadi minorenni sono molti, in particolare nelle regioni centrali.
I giovani appartengono per lo più alle etnie rom e sinti, e vengono fermati soprattutto per reati contro il patrimonio. Si tratta quindi di borseggi, furti in appartamento e nelle auto, di beni commestibili o vestiario. Secondo le analisi dell’USSM-Ufficio di Servizi Sociali per Minorenni, l’età dei ragazzi “nomadi” presi in carico è di 14-15 anni nel 52% dei casi, mentre nel 44% dei casi si tratta di giovani di 17-18 anni.
Ad ogni modo, il dato su cui il rapporto vuole invitarci a riflettere è quello che riguarda il numero delle condanne e la lunghezza dei periodi di detenzione, che interessano i minori stranieri, in particolare rom e sinti. Negli ultimi anni, infatti, nel nostro Paese va diminuendo il totale dei detenuti minorenni, ma sono in crescita le cifre che riguardano gli stranieri: nel 2011 gli italiani segnalati ai servizi sociali erano 16.884 mentre oggi sono 15.729. Gli stranieri, invece, oggi sono 4.521 mentre nel 2011 erano 3.273. Si tratta di giovani che provengono principalmente dall’Est europeo (Romania, Paesi dell’ex Jugoslavia, Albania) e dal Nord Africa (Marocco, Tunisia, Egitto). Le ragazze, invece, arrivano soprattutto da Romania, Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia.
Secondo il rapporto, quindi, i minori stranieri vengono condannati più spesso dei coetanei italiani e scontano periodi di detenzione cautelare più lunghi.
I minori rom nel circuito penale
Attualmente, in Italia sono possibili quattro diverse misure cautelari per i minori: la prescrizione (la meno restrittiva, che impone obblighi per le attività di studio o di lavoro); la permanenza in casa (che prevede l’obbligo di rimanere presso l’abitazione familiare o in un’altra casa, per continuare il percorso rieducativo iniziato); il collocamento in comunità (che può essere socio educativa o terapeutica); la custodia cautelare in un Istituto penale per minorenni (che è prevista per i delitti di maggior gravità).
Come si legge nella ricerca, l’Istituto penale (il carcere minorile) rimane una misura estrema, meno rara per gli stranieri. Negli ultimi anni, infatti, l’applicazione delle misure cautelari non detentive è stata maggiore per gli italiani (90,9%), rispetto agli stranieri (78,7%). Se le misure previste per i giovani italiani fanno riferimento soprattutto alla permanenza in casa, al collocamento in comunità e alle prescrizioni, diversamente accade per gli altri detenuti minorenni: le misure adottate per gli stranieri e i rom vedono al primo posto il carcere, al secondo il collocamento in comunità e al terzo la permanenza in casa.
A questo proposito, quando si parla di minori rom, spesso i giovani entrano in Istituto non perché abbiano commesso reati più gravi dei coetanei italiani, ma perché nella maggioranza dei casi non hanno una situazione socio-famigliare che consenta di ottenere misure diverse dalla carcerazione. In questo senso, un caso emblematico riguarda le ragazze rom, che rappresentano la quasi totalità delle detenute degli Istituti minorili del nostro Paese.
La situazione a Roma e nel Lazio
Nella regione Lazio e, ancor di più nella città di Roma, i Centri e gli Istituti di pena accolgono un numero di minori tra i più alti del Paese. In particolare, il rapporto fa riferimento all’Istituto Penale Minorile di Casal Del Marmo (Roma), dove nel 2015 gli ingressi sono stati 219, con una presenza media giornaliera di 61 ragazzi, superiore a quella di ogni altro Istituto italiano. Le ragioni di queste cifre sono da attribuire anche alla permanenza, nel carcere minorile, di giovani provenienti da altre città.
Dati altrettanto rilevanti riguardano il Centro di Prima Accoglienza di Roma, che ogni anno ospita un terzo del totale degli arrestati nel territorio nazionale. Nel 2015 gli ingressi nel CPA sono stati 436, mentre a Napoli sono stati 158 e a Milano 184. Il numero totale dei rom entrati nel CPA si è dimostrato in crescita costante, passando dal 41,9% del 2011, al 47% nel 2012, fino ad arrivare 53,5% nel 2013 (dati più recenti non sono ancora disponibili).
I ragazzi stranieri risultano in maggioranza anche tra gli utenti del Centro per la Giustizia Minorile del Lazio: in questa regione, infatti, gli stranieri rappresentano i tre quarti del fenomeno complessivo della devianza minorile. Soffermandosi sulle caratteristiche dell’utenza del Lazio, il rapporto registra una presenza relativamente alta di ragazze tra gli arrestati, costituita in prevalenza da giovani rom.
Non solo: a distinguere i minori rom rispetto a quelli di altre nazionalità è l’alto tasso di recidività, dato che risulta confermato sia dal CPA che dall’Istituto di Casal del Marmo.
Una prigione-ghetto?
«Per i minori il carcere rappresenta, ancor più che per gli adulti, il luogo degli esclusi, di coloro che, per le più disparate ragioni, non sono riusciti ad imboccare nessuno dei percorsi che avrebbero consentito un’alternativa», si legge nel rapporto. L’Istituto di pena, secondo questa prospettiva, si trasforma allora in un ghetto, che non fa altro che confermare e prolungare la condizione di esclusione sociale, che i minori già vivevano al di fuori del carcere.
Parlando dei giovani rom, infatti, abbiamo già accennato a quanto sia difficile ottenere misure alternative al carcere (come la permanenza in casa), quando la situazione famigliare di partenza non lo consenta. Quello che possiamo aggiungere, allora, è che il contesto in cui i minori rom crescono non condiziona solamente la loro pena, ma influisce profondamente anche a monte, sullo stile di vita e sulle scelte che conducono i ragazzi al crimine.
I minori rom che commettono reati, infatti, provengono in gran parte dai campi, realtà abitative che presentano condizioni di svantaggio oggettive. I campi sorgono spesso lontano dai servizi e dai centri abitati, e perfino i trasporti pubblici a disposizione si contano sulla punta delle dita. Questi fattori, si legge nel rapporto, riducono le possibilità di inserimento scolastico, lavorativo e sociale degli abitanti, in particolar modo dei minori.
Pensiamo ad esempio ai grandi insediamenti attrezzati di Castel Romano, Salone e La Barbuta. Non a caso, molti giovani rom intervistati, durante il progetto di ricerca, hanno descritto i campi come luoghi privi di punti di riferimento positivi, dove è molto facile cadere nella tentazione di commettere reati: «Il campo attrezzato è fatto per far vivere i rom dentro. Come il recinto per le pecore, che è fatto per far stare dentro le pecore, se ci pensiamo. […] il campo è un limbo, un circolo vizioso».
Combattere la recidiva, coltivare l’inclusione
«I minori rom coinvolti nel circuito penale provengono da contesti di emarginazione e povertà educativa. Questo è il dato fondamentale», dice Antonio Ardolino, operatore sociale e curatore della ricerca, che ha risposto alle nostre domande. «La recidività che abbiamo registrato tra i minori rom è causata anche dalla precarietà dei progetti, messi in campo per loro», dice Ardolino. «Avremmo bisogno di azioni che lavorino “a monte”, all’interno del contesto sociale in cui vivono i ragazzi, ma anche di iniziative che agiscano al di fuori dei campi, per combattere i pregiudizi che li circondano. Per chi è già entrato nel circuito penale, invece, servono interventi in grado di accompagnare il minore verso un definitivo cambio di rotta. Questo obiettivo diventa estremamente difficile da raggiungere, quando la pena è stata scontata e il ragazzo, uscendo dalla comunità o dall’Istituto, fa ritorno nel contesto difficile in cui è cresciuto. Servono quindi progetti di ampio respiro, perché non hanno dimostrato alcuna utilità gli interventi “emergenziali”, utili sì nell’immediato, ma destinati ad avere poca incidenza nel lungo periodo».
Esiste poi un’altra difficoltà, quella legata alla collaborazione tra i soggetti coinvolti: «operatori, assistenti sociali e insegnanti sono così impegnati ad aggrapparsi alle poche risorse a loro disposizione, che “fare rete” diventa un obiettivo difficile, quasi secondario», dice Ardolino, «mentre invece sarebbe fondamentale». Infine, per avviare progetti di prevenzione e di lotta alla recidiva, il curatore segnala l’importanza dell’arte, del cinema e della musica, come strumenti di inclusione: «la possibilità di rappresentarsi attraverso le arti e la musica fornisce ai giovani rom un’occasione importante, per uscire dal campo e ritrovarsi intorno ad un’attività creativa su cui lavorare insieme». È questo il caso del laboratorio artistico SaràBanda, costruito con i ragazzi di un villaggio attrezzato della periferia est di Roma.