NAUFRAGHI SENZA VOLTO: DARE UN NOME ALLE VITTIME DEGLI SBARCHI
Cristina Cattaneo, medico legale, racconta il suo lavoro di identificazione dei migranti vittime dei naufragi. Tra cui il ragazzo con la pagella cucita addosso
28 Gennaio 2019
Cristina Cattaneo è un medico legale. Il suo lavoro è occuparsi di cadaveri e resti umani senza un nome, persone che rischiano di scomparire, essere dimenticate da tutti. Lavora in un piccolo laboratorio a Milano, dal nome vagamente sovietico, Labanof, che si occupa di resti umani, come quelli delle vittime di mafia trovati sotto le fondamenta delle costruzioni, o come quelli degli antichi abitanti di Milano a tempi dei romani. Negli anni più recenti della sua carriera si è posta un problema: quello che qualcuno dovesse identificare le vittime dei tanti naufragi dei barconi che trasportano i migranti verso le nostre coste. Tra i suoi colleghi era la norma prodigarsi per riconoscere vittime dei disastri aerei o navali di casa nostra. Ma nessuno pensava di farlo con i migranti. Cristina e i suoi colleghi, in occasione del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (un barcone con circa 400 eritrei a bordo, seguito da un altro, poco dopo, con delle famiglie siriane) decide di impegnarsi in questo duro, delicato lavoro. Da quest’esperienza è nato il libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo (Raffaello Cortina Editore), che racconta la storia degli sbarchi da questo punto di vista, inedito e interessante. Quello di chi si trova dall’altra parte, a fare un lavoro che forse viene dato per scontato. Ma è importantissimo.
GLI EFFETTI PERSONALI: POTREBBERO ESSERE I NOSTRI. «Immaginiamo anche solo per un attimo che un aereo pieno di italiani precipiti al largo di un altro continente, che i corpi vengano raccolti, sepolti, ma che nessuno si occupi di identificarli. Non lo accetteremmo. E allora perché accettarlo se a morire sono “quegli” stranieri? Perché non si faceva niente? Temo che il fatto che gran parte delle vittime avesse la pelle di un colore diverso c’entrasse qualcosa, come il fatto che leggesse il Corano o parlasse una lingua che non conosciamo né vorremmo, forse, conoscere». È un passaggio del libro che spiega bene come identificare le vittime di questi disastri sia un atto civiltà, di umanità. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta ovviamente di dare una certezza a persone che, magari da anni, non hanno notizie di loro cari da cui si sono separati. Ma anche di fare un atto, come un certificato di morte, che può cambiare il destino di un minore. Capita infatti che un bambino resti senza genitori e che debba essere adottato da un parente prossimo: senza un certificato di morte del genitore questo non può avvenire.
Quello del riconoscimento è un lavoro lungo e complicato. Chi si trova a farlo si trova davanti dei documenti con una serie di immagini di volti. Pensateci: noi i volti non li vediamo mai. Vediamo una serie di immagini televisive, carrellate su corpi che galleggiano nell’acqua o sono già sulla terra, masse informi già nei sacchi. Visti in primo piano, come racconta l’autrice, sono volti belli, ben conservati, di cui si riescono a distinguere nettamente i tratti. Ma, oltre i volti, colpiscono, forse ancor di più, gli effetti personali: forse perché, riflette l’autrice, si tratta delle ultime scelte, le ultime cose prese prima di partire, o perché, mentre i volti sono di altri, gli effetti personali potrebbero essere i nostri.
RITROVARE UN VOLTO SU FACEBOOK. Naufraghi senza volto è il racconto, da un lato, della necessità di mettere il proprio sapere, il proprio lavoro, al servizio di qualcuno a cui pochi, se non nessuno, pensano sia necessario. È il racconto delle difficoltà da superare per riuscire a fare questo lavoro con mezzi, tempi e procedure che non sono quelli abituali. È il racconto, a volte anche molto tecnico, delle procedure meticolose che vengono seguite per il riconoscimento delle vittime di naufragio. E poi c’è anche il rapporto con i familiari delle vittime, persone che non si conoscono, che vanno trattate con il tatto necessario, eppure anche con domande tecniche che, in quel momento, sono fredde e spietate. Devono esserlo. Più volte, viene nominato un elemento che a noi magari non verrebbe nemmeno in mente: Facebook. Sì, perché la maggior parte di noi, che vede arrivare qui dei ragazzi senza più niente, non riesce a pensare che, in qualche modo, nel loro paese avevano una vita “normale”. Nel senso che avevano un account su Facebook, dove magari c’erano le foto del loro matrimonio, o della laurea, perché avevano studiato. E avevano cercato di arrivare in Europa per non essere costretti a fare i soldati a vita, o proprio per continuare quegli studi. Molti dei riconoscimenti sono stati fatti trovando delle foto delle vittime proprio sul più popolare dei social network.
IL RAGAZZO CON LA PAGELLA. Dentro la storia di Cristina Catteneo e dei suoi colleghi, e della non facile scelta di impegnarsi in questo lavoro, ci sono tante storie, quelle delle persone che hanno perso la vita e, attraverso i racconti dei parenti e le ricostruzioni, vengono alla luce. Come la ragazza che andava così bene a scuola che aveva vinto una borsa di studio per una prestigiosa università europea. E aveva provato ad arrivare in Europa con il barcone solamente perché credeva che fosse la via più veloce. C’era la possibilità di prendere un aereo, ma sarebbero serviti permessi e documenti. E lei no, non poteva proprio aspettare: era troppo impaziente di iniziare la sua nuova vita.
E poi c’è la storia, quella più nota, arrivata fino a noi. È quella del ragazzino con la pagella cucita nella giacca. In Naufraghi senza volto la leggiamo, raccontata da Cristina Cattaneo. Dallo studio delle ossa si pensa a un ragazzo di 18 anni, poi di 16. Poi si pensa ad analizzare la dentizione, e ci si accorge che è ancora più giovane, avrà 14 anni. Si comincia a svestirlo e, tastando la giacca, si sente qualcosa di duro e quadrato: senza danneggiarla, ecco che si trova un plico di carta, composto da diversi strati. «Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna, le parole un po’ sbiadite mathematiques, sciences physiques… Era una pagella. “Una pagella”, qualcuno di noi ripeté a voce alta», leggiamo nel racconto. «Pensammo tutti la stessa cosa, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, ormai ridotto a poche pagine scolorite intrise di acqua marcia?»
PER RIFLETTERE. Come capite da queste ultime righe, Naufraghi senza volto è un libro fatto, oltre che di storie e di dettagli tecnici, di riflessioni, semplici ma profonde. Lo stesso libro è un elemento importante di riflessione. Serve per leggere la questione delle migrazioni da altri punti di vista. Ad andare oltre uno storytelling che non sia solo quello della cronaca degli sbarchi e dello scontro politico. Come ha fatto Dove bisogna stare, il film di Daniele Gaglianone che racconta la vita di quattro donne che hanno deciso di aiutare concretamente i migranti con un impegno quotidiano, Naufraghi senza volto ci mostra ancora un altro lato della storia, un’altra implicazione della questione, una storia di impegno concreto, davvero particolare, con dentro altre storie. Per capire che il tema è molto più complesso di un post sui social di qualche politicante.
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Cristina Cattaneo
Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo
Raffaello Cortina Editore
pp.198 – € 14,00
In copertina il barcone del naufragio del 18 aprile 2015 presso la base della Marina militare di Melilli (SR). Sul fianco sono visibili le aperture effettuate per estrarre i corpi dalla stiva. Foto credits: Salvatore Cavalli
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