NO PRISON: UNA SOCIETÀ SENZA PRIGIONI È PIÙ SICURA
Il carcere costa troppo e deresponsabilizza. In un manifesto le proposte alternative del movimento No Prison. Se ne discuterà il 10 ottobre a Roma
03 Ottobre 2019
Può esistere un mondo senza prigioni? Il seminario internazionale No Prison è stato organizzato proprio per rispondere a questa domanda. Giovedì 10 ottobre, nella sede della Fondazione Basso, ne discuteranno il giurista Luigi Ferrajoli, il giornalista Livio Ferrari, l’ex magistrato Gherardo Colombo, il direttore del Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Padova Giulio Cainelli, il medico penitenziario Francesco Ceraudo, la responsabile Commissione Carcere della Camera Penale di Roma Maria Brucale, il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, l’avvocato Valerio Spigarelli, il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella, la rappresentante dell’associazione Nessuno Tocchi Caino Elisabetta Zamparutti e il docente di Sociologia del Diritto dell’Università di Padova Giuseppe Mosconi. A coordinare le due tavole rotonde il direttore di Avvenire Marco Tarquinio.
IL MANIFESTO. Sovraffollamento, diritti umani a rischio, assenza di misure alternative: la prigione sembra non rispondere più con la stessa efficacia ai bisogni di giustizia e sicurezza della società. Che fare allora? Il movimento No Prison ha una proposta basata su cinque obiettivi: la creazione di provvedimenti alternativi alla prigione, l’analisi delle cause del reato, la risoluzione di conflitti, il superamento della vendetta e la diffusione di un’informazione che influenzi l’opinione pubblica. Battaglie messe nero su bianco in un apposito manifesto, consultabile sul sito noprison.eu. In esso si legge che «il carcere non solo (…) non produce sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità, ma nel suo operare viola sistematicamente i diritti fondamentali». In più «l’aumento della popolazione carcerata rende evidente come la paura della punizione non sia un argomento capace di ridurre i reati» e «la recidiva, in quasi tutto il mondo, supera il 70%». Secondo gli autori «i tempi di questa permanenza in strutture segregative debbono comunque essere ridotti al minimo» e si dovrebbe investire in «opportunità pedagogiche ed assistenziali, modalità lavorative e formative, risposte economiche, opportunità risarcitorie».
L’INTERVISTA. Reti solidali ne ha parlato con il presidente del movimento No prison, Livio Ferrari.
Presidente, nel manifesto No Prison si legge che «una società senza prigioni è più sicura». In che modo?
Quando c’era la pena di morte o la tortura si pensava che la società fosse più sicura. L’ordine però è costituito dalla legge, non dalla cattiveria o dalla paura. Il carcere è un’istituzione che deresponsabilizza completamente l’autore del reato: qualunque nefandezza commetta, una volta dentro l’autore se ne può disinteressare. A meno che non ci sia una pericolosità reale, è meglio che il prigioniero utilizzi il tempo della condanna per restituire ciò che ha fatto di male. In prigione non è possibile.
Più avanti scrivete che «i poveri [sono, ndr] i soli capri espiatori». Non esistono detenuti ricchi?
Il carcere nasce intorno al Seicento per togliere dalla società i più poveri. Oggi chi sta bene economicamente può permettersi una buona difesa e in carcere non ci entra, potendo accedere a misure alternative. Infatti la popolazione penitenziaria è composta soprattutto da giovani, stranieri, persone senza dimora, legate al mondo della droga o disadattati con problemi psichici.
Se non rischio più la detenzione, perché non delinquere?
Quello che proponiamo noi è più duro della delinquenza. Stare fuori ma lavorare per anni gratis per le vittime è sicuramente diverso che oziare all’interno di una prigione. Non è che le persone non delinquono perché hanno paura del carcere. Chi delinque non bilancia rischi e opportunità di un delitto: è uno stereotipo del mondo della giustizia.
Parlate anche di misure alternative. Quali?
Un percorso di correzione delle coscienze, che permetta al detenuto di tornare sulla strada della legalità attraverso il risarcimento del danno alla vittima. Sui 60mila detenuti italiani solo 15mila hanno bisogno di essere privati della libertà. Il resto potrebbero stare fuori. Oggi la detenzione costa allo Stato 3 miliardi di euro l’anno, di cui il 90% serve per pagare il personale e solo lo 0,2% per percorsi di risanamento.
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