LA NUOVA FASE DELLA PROTEZIONE CIVILE
La protezione civile nazionale è stata soggetta a troppe attenzioni politiche e amministrative. Oggi bisogna tornare ai territori
03 Novembre 2015
La ricchezza del volontariato spontaneo e la preparazione del volontariato di Protezione civile: una riflessione di Agostino Miozzo, intervistato da Paola Springhetti per il numero di settembre 2015 di VDossier, il trimestrale pubblicato da un gruppo di Centri di servizio per il volontariato, tra cui Cesv e Spes. L’articolo è stato pubblicato con il titolo “Non chiamateli angeli. Per superare le emergenze basta solo essere proattivi”. L’intero numero è reperibile in formato .pdf nel portale www.volontariato.lazio.it.
Ogni volta che c’è un’emergenza di qualunque tipo – dall’alluvione di Firenze nel 1966 fino all’emergenza migranti degli ultimi mesi – gli italiani si mobilitano spontaneamente, con grande generosità. Ai media questo piace molto, e raccontano questo impegno con spazio ed enfasi. In occasione dell’alluvione di Genova, l’enfasi è stata particolarmente forte e per elogiare questi cittadini i titoli di articoli e servizi ruotavano attorno all’espressione “angeli del fango”, al punto che è perfino nata una campagna, “Non sono angeli”, che ha lo scopo di ricordare che si tratta semplicemente di cittadini attivi, non di eroi né tanto meno di angeli. Cittadini che però, con la loro spontanea generosità, hanno tappato buchi del sistema di Protezione civile. Che cosa hanno a che fare queste mobilitazioni spontanee con il volontariato di Protezione civile? E quali sfide deve affrontare quest’ultimo, in tempi di crisi? Ne parliamo con Agostino Miozzo, che per quasi dieci anni è stato direttore generale dell’Ufficio volontariato, Relazioni istituzionali ed internazionali del Dipartimento della Protezione civile presso la presidenza del Consiglio dei ministri, per poi andare a coordinare la risposta alle crisi del Servizio di relazioni esterne dell’Ue, incarico da cui è appena rientrato per passare al dipartimento delle Politiche antidroga.
«L’aspetto positivo di queste mobilitazioni è che i cittadini, i giovani in particolare, non sono indifferenti», spiega, «e soprattutto in tempi di crisi, di protesta, di rancore, questa disponibilità – che si attiva attraverso le nuove reti di comunicazione passando attraverso internet e i cellulari – è una risposta bella, positiva».
Positiva, ma effimera, si potrebbe dire.
«Questa straordinaria ricchezza, che è tipica nel nostro Paese, non deve essere lasciata sola. La capacità di abbandonare la scrivania o gli accessori griffati e immergersi nella solidarietà, quando la situazione lo richiede, è bellissima».
Ma va intercettata e tirata fuori dalla spontaneità pura.
«Questo è il compito delle associazioni, ma anche delle istituzioni».
I volontari di Genova sono stati lasciati soli?
«Io credo che siano stati il prodotto della relativa crisi del sistema. Dopo un periodo che potremmo definire eroico, di grande dinamismo e attività, la Protezione civile nazionale è stata soggetta a troppe attenzioni politiche e amministrative, che hanno offuscato obiettivi, competenze, mandato. Quello strumento era utilizzato ventiquattro ore su ventiquattro in tutte le aree del Paese per qualunque evenienza, in particolare per sostituire anche deficit strutturali delle amministrazioni periferiche. La Protezione Civile che si occupa di rifiuti, ad esempio, supplisce a un deficit della Regione, della Provincia o del Comune. Quella Protezione civile era una specie di superstruttura, che veniva in aiuto a un sistema con tante carenze e con tanti limiti. Va rilevato inoltre che in quel periodo non era forte solo dal punto di vista “politico”, lo era anche da quello economico. Aveva un mandato e risposte che consentivano l’attivazione e l’organizzazione sul territorio di migliaia di volontari, che di volta in volta scendevano in campo».
Poi che cosa è cambiato?
«La crisi di quella Protezione civile, legata alle inchieste e alle indagini, ha creato difficoltà al sistema, con una riduzione ed una limitazione della capacità operativa e il sopravvento del controllo politico e amministrativo sull’autonomia del sistema, che allora era pressoché totale. Se c’era un’emergenza l’intervento era immediato: noi eravamo i primi ad essere sul territorio. Oggi ci sono più criticità e controlli, oltre a carenza di risorse finanziarie. Se hai vincoli di bilancio e vincoli normativi, se devi confrontarti con gli organi di controllo prima di attivare il sistema, nascono difficoltà oggettive. A Genova queste difficoltà probabilmente ci sono state, anche nell’attivazione delle organizzazioni di volontariato di Protezione civile. I cittadini, in questo caso gli “angeli del fango” di Genova, spontaneamente, hanno tappato i buchi del sistema, mentre in altri tempi sarebbe stato il sistema a coinvolgerli».
Da Firenze in poi si dice che questo volontariato così spontaneo fa correre dei rischi.
«Quella di Genova è stata un’alluvione, drammatica e disastrosa, che però poi ha lasciato soprattutto fango e calcinacci da ripulire. In altre situazioni, per esempio il terremoto dell’Aquila nel 2009, non c’era spazio per tanta spontaneità, che rischia di creare problemi a te volontario impreparato e alla popolazione che vorresti aiutare. Per fortuna in Italia c’è una bellissima storia di volontariato di Protezione civile formato, preparato e anche adeguatamente equipaggiato.
Quando vedevo le immagini dei ragazzi di Genova che scavavano a mani nude nel fango, mi venivano i brividi. In quel fango poteva esserci di tutto: cavi della corrente elettrica, lamine di ferro, qualunque cosa».
Nel corso dell’Autoconvocazione del volontariato, nel maggio scorso, il sociologo Mauro Magatti ha sfidato il volontariato a intercettare quello che lui ha definito il volontariato latente, cioè le disponibilità che non arrivano a diventare impegno effettivo. Come si fa?
«È un impegno che spetta a tutti: organizzazioni di volontariato e istituzioni. Si deve fare un lavoro sul territorio e ci vuole anche attenzione politica: dall’epoca di Zamberletti abbiamo impiegato decenni per costruire questa realtà, cioè una cultura di lavoro e aggregazione. A tutto questo il Governo, di qualsiasi schieramento, deve fare molta attenzione, per intercettare le disponibilità dei giovani e le risorse del territorio».
Perché il volontariato di protezione civile riesce a coinvolgere molti giovani, nei confronti dei quali invece altri volontariati hanno più difficoltà?
«Perché in fondo il volontario di Protezione civile rappresenta nell’immaginario collettivo “l’angelo del fango organizzato”, quello che si attiva nei momenti di crisi e di emergenza, di fatto nei momenti “eroici”. È quello che sa che, prima o poi, sarà chiamato ad intervenire, a salvare una vita o a salvare un pezzo del suo territorio, e quindi si sente subito utile, perché offre un servizio reale, oggettivo, apprezzato, amato e condiviso dalla popolazione».
Nella Protezione civile, dunque, il volontariato è più istituzionalizzato.
«In questo ambito è tutto relativamente più facile, perché gli obiettivi sono condivisi e facilmente condivisibili. Se fai un intervento o metti a punto un servizio nel tuo Paese, la gente immediatamente ti riconosce un ruolo. Hai un’identità, un’organizzazione, una divisa. La divisa ti rende riconoscibile, racconta la tua storia, dice in quali emergenze sei stato presente. Ti colloca dentro un progetto, dentro un sistema che ti permette di operare. Lo stesso vale per le strutture: cucine da campo (spesso straordinarie strutture su ruote), un’ambulanza, una macchina per spegnere gli incendi, i cani da ricerca delle vittime sotto le macerie… Le strutture ti mettono dentro un’organizzazione. E fino ad ora il volontariato ha avuto risorse per il training, per la formazione, per le visite mediche… Alla fine il puzzle si compone in un quadro facilmente identificabile e comprensibile».
Però si è chiusa un’epoca. Ci sono meno soldi, più limiti. Come si affronta la crisi?
«Non si è conclusa un’epoca, semplicemente è terminato un ciclo durante il quale, come abbiamo pocanzi detto, la protezione civile si vedeva addossate competenze che spettavano ad altri. Anche se, ad esempio, per quanto riguarda i grandi eventi, credo che un ruolo la protezione civile dovrebbe continuare ad averlo: non quello di costruire le strutture fisiche che li ospitano, ma quello di fronteggiare le situazioni critiche che sempre si creano quando c’è un’aggregazione enorme di persone. È vero, in questo momento la crisi economica pone dei limiti: meno esercitazioni, meno eventi, meno preparazione dei volontari, meno campagne di informazione e meno coinvolgimento di nuovi volontari».
Ma il lavoro deve andare avanti e servono risorse. Chi le può generare?
«Il Terzo Settore e il volontariato stesso, attraverso innumerevoli modi, per esempio con iniziative che incentivino la raccolta di fondi privati. Tanto più che il privato è in genere molto sensibile alle attività e alle cause di cui si occupa la Protezione civile, che possono avere un grande ritorno mediatico».
Com’è questo nostro volontariato visto dall’Europa?
«Molti Paesi non si capacitavano, davanti ai nostri numeri, di come potessimo avere una realtà così straordinaria di protezione civile. Più di 4mila associazioni sul territorio, più di un milione di volontari. Soprattutto nell’Est Europa, laddove non c’è una tradizione di volontariato paragonabile alla nostra. I numeri però colpiscono anche i Paesi del Nord, dove le istituzioni tendono a intervenire su tutto, ma nello stesso tempo ci si rende conto che, in situazioni di crisi davvero grande, non possono fare tutto. Ci invidiano un numero così alto di organizzazioni strutturate e radicate sul territorio, ma soprattutto il fatto che sono ormai parte della nostra storia.
L’Europa ci invidia. Ma ci sono dei limiti da superare, nel nostro sistema?
Uno dei limiti è il rischio di attendere, un po’ passivamente, l’intervento dell’istituzione centrale, ossia il “papà-istituzione” che risolva i problemi. Ritengo sia utile cercare di essere più “proattivi” sotto questo punto di vista. La crisi c’è, è globale ed inevitabilmente interessa anche il mondo della protezione civile. Proprio per questo bisogna reagire, perché la domanda di servizi esiste anche in concomitanza di una crisi economica».