DANIEL, AISHA, TARTEEL E SOFIA: ESSERE ISRAELIANI, PALESTINESI E OBIETTORI. A VENT’ANNI
Quattro ragazzi portano in tour per l'Italia le loro storie nella campagna del Movimento Nonviolento "Obiezione alla Guerra", supportata anche da CSV Lazio, che ci consegna la responsabilità di una pace da sussurrare insieme
di Claudio Tosi
03 Novembre 2024
Quattro giovani, tre ragazze e un ragazzo, stanchi morti, appoggiati uno all’altro, che da giorni girano l’Italia portando la loro testimonianza, si danno a turno la parola e mentre l’altro parla si riposano, con la testa sulle braccia. Quattro amici, si direbbe a prima vista, e certamente lo sono diventati, ma le loro storie sono molto diverse, perché due di loro sono Israeliani e le altre due Palestinesi. «È stato un percorso lungo, difficile, doloroso», ci dice Daniel che sta partecipando al tour della Campagna Obiezione alla Guerra promossa dal Movimento Nonviolento e supportata tra gli altri dal CSV Lazio in quanto Refusnik Israeliano. Ci racconta come è arrivato a maturare la sua decisione di essere Obiettore di Coscienza, rifiutando di prestare servizio nell’IDF, affrontando il carcere militare «per non avere le mani sporche di sangue».
Daniel dichiara di essere stato un Sionista, è un ragazzo di 23 anni che a differenza dei suoi coetanei ha avuto una fortuna, quella di aver fatto l’Università prima di prestare servizio militare. È stato allora, con un percorso di presa di coscienza lungo, difficile, e doloroso, che Daniel si è reso conto di essere nato e cresciuto in una “segregazione” dorata, dalla parte comoda del «regime di apartheid istituito dallo stato di Israele nei confronti degli arabi», che per tutta la sua vita, pur non avendone mai incontrato uno, glieli aveva dipinti come terroristi, sanguinari e pericolosi. Ma facendo l’università a Gerusalemme Daniel, uscito a 18 anni dalla scuola e dalla sua città segregata, come accadde a Siddharta uscendo dalla reggia del padre, incontra l’altro, vede i muri che separano ebrei da palestinesi, incontra e studia con arabi, capisce che l’altro non è quella feccia disumana che si aspettava. E pensa ai suoi coetanei, militari diciottenni in servizio ai check point con diritto di vita e di morte, che, senza quel periodo di consapevolezza, guardano a chi controllano con l’imprinting disumanizzante con cui sono stati cresciuti e decide che non continuerà quella linea di morte, che deve alzare la sua voce e fare una scelta: obiettare alla guerra.
Obiezione alla guerra: il coraggio di farsi ascoltare
Le tre testimonianze che seguono sono altrettanto forti e hanno in più il fatto di venire da ragazze che intorno ai vent’anni si sono trovate a riflettere sul proprio destino e hanno deciso di prenderlo in mano, di imprimere una direzione diversa a quello che sembrava un percorso ineluttabile. Aisha, araba israeliana, soffre l’infanzia schiacciata da una cittadinanza non richiesta che la rende cittadina di serie b e le impone la lingua dell’altro, quando incontra Daniel e capisce che non tutti gli israeliani sono uguali, trova il coraggio di farsi ponte e inizia a tradurre nella lingua dell’altro le storie di umanità che raccoglie essa stessa tra israeliani e palestinesi. Tarteel, palestinese di Hebron, dopo un’infanzia di limitazioni e check point costruiti e gestiti per umiliare, si ribella all’idea di essere un “essere umano la cui voce non poteva essere udita” ed entra nei CPT-Community Peacemaker Teams per testimoniare la possibilità di costruire un’alternativa pacifica e nonviolenta che, pur non disponendo di mezzi, ha la forza indomabile della testimonianza diretta. Sofia, anche lei Refusnik Israeliana a 19 anni è già consapevole della necessità di dare risalto alla sua scelta e per questo la paga con 85 giorni di prigione militare e una minaccia di finire in isolamento se ne fa propaganda nelle carceri; lei ci consegna la responsabilità di essere ripetitori delle loro parole, di attivare l’opinione pubblica occidentale, l’unica che può spingere Israele a un rinsavimento. Le loro testimonianze cariche di emozione ricordano che esiste ancora, soprattutto nelle nuove generazioni un forte desiderio di pace e una ricerca comune di connessione tra le persone. Nei giovani in Servizio Civile che hanno seguito l’incontro romano organizzato da Le Vie della Nonviolenza il 23 e quello pubblico ospitato dal CSV Lazio il 24 reso ancora più significativo dagli interventi del Sociologo Luigi Manconi e della Filosofa Donatella Di Cesare, ascoltare questi coetanei così provati e così determinati li ha sferzati a dare un senso al proprio status privilegiato e a rendere ancora più incisiva la propria azione solidale verso le fasce discriminate della nostra società.
Una questione aperta, consegnata a tutti noi
Il Tour Obiezione alla Guerra ci dimostra l’assurdo di guardare agli opposti come separati: il bianco e il nero, il cattivo e il buono, il giusto e lo sbagliato sono concetti e valori che viaggiano su un unico cursore, definiti solo dal contesto e mai concreti in assoluto. Sporgendosi dalla propria nicchia di senso ci si potrà accorgere cosa abbia favorito lo sguardo bloccato dell’altro e lo si potrà aiutare a relativizzare la propria posizione. E’ un processo che non si nutre delle stesse priorità che la filosofia della guerra impone: disumanizzare l’avversario, negarne la dignità, lo status stesso di essere umano. Al contrario, quello di riaprire lo sguardo alla propria umanità è un processo che chiede di dare dignità a una situazione di sospensione. Contrariamente a quello che sembra il must del successo nella nostra società basata sull’efficienza, la capacità di prendere decisioni, di sapere il fatto proprio, e di “non dover chiedere mai”, fare la Pace ha a che fare con saper dare progettualità alla sospensione, alla capacità di ascolto, al coraggio di lasciare aperte le frontiere e non bloccare il giudizio. La questione allora è aperta e consegnata a ciascuno di noi. Ma non è quella dello schierarsi, piuttosto quella di aprire uno spazio di ascolto e di parola, una dimensione di “dicibilità” rispetto a una situazione che è talmente dura e angosciosa che rischia di portare all’afasia e al ripiego identitario. Le voci che oggi possono significativamente levarsi sono in primo luogo quelle che da dentro le comunità dei confliggenti riescono a dire l’altro, gettare un ponte verso l’umanità dell’altro e costruire un filo di dialogo che mantenga viva l’idea che riconosce a ciascuno la medesima radice umana.
Perché la Pace si costruisce mentre c’è il conflitto, mentre qualcuno ci chiama nemico, mentre qualcuno ci offende o viene offeso. E allora la Pace va fatta “prima”, prima che se ne maturino le condizioni, prima che l’altro ci ascolti, quando ancora non la si può dire, ma solo sussurrare. E allora, perché riesca, la Pace va sussurrata insieme, da tanti, da ciascuno: grandi e piccini, donne e uomini, offesi e offendenti. Perché più che la guerra la Pace ha un grande nemico: la nostra indifferenza.
In copertina immagine CT M