
OLTRE LA DIAGNOSI, PER UNA NUOVA NARRATIVA DELLA GUARIGIONE
Una riflessione sulle soggettività in balia dei protocolli, sullo strapotere delle diagnosi che appiattiscono i pazienti sulla malattia, sull’informazione che “disabilizza”. E sui volontari, impegnati in una difesa della storia del singolo dalla standardizzazione proposta dal trattamento
di Claudio Tosi
20 Febbraio 2025
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Su La Stampa di oggi, Iacopo Melio firma un articolo in cui dice: «Basta a chi “disabilizza” con le parole» e presenta il contrasto tra vita e comunicazione patologizzante. Ci racconta di Elia, “un ragazzo che dopo essersi formato sul metodo Caa (comunicazione aumentativa alternativa) ha deciso non solo di raccontare la sua esperienza nelle scuole, ma anche di insegnare ad altre persone questo metodo: un risultato non solo soddisfacente a livello personale, ma anche importante per la comunità”. Ma la notizia, ci segnala Melio, è distorta dal modo in cui la si presenta: «Peccato per quel “Elia, bloccato in carrozzina” con il quale molti giornali lo hanno introdotto. Anzi, descritto. Il disabile prima della persona, la cartella clinica prima della risorsa umana».

Mi occupo di sensibilizzazione e divulgazione come attivista per i diritti umani e civili». Iacopo Melio fotografato da Marco Ferrario
Dalle diagnosi dei pazienti alle storie delle persone
Questo stesso tema l’abbiamo affrontato il 3 Febbraio scorso, quando presso il Centro Servizi per il Volontariato del Lazio è stato presentato il libro “Psicopatologia narrativa” scritto dallo psicologo e psicoterapeuta Luca Casadio ed edito da Castelvecchi, in cui l’autore discute la natura, l’utilizzo e le disfunzionalità della diagnosi psichiatrica, oggi dominante, e propone di dar vita a un’altra forma di sapere, di tipo narrativo, che metta al centro le storie dei pazienti. Il libro, con suggestivi riferimenti a romanzi e opere d’arte, introduce e tratta i maggiori quadri diagnostici descrivendoli come dei copioni narrativi, scenari di cui va sempre valutata la vicinanza, o distanza, rispetto alle articolate e uniche storie di vita del soggetto.
Le persone dentro le definizioni
Nel raccogliere la sfida di presentare il libro mi sono addentrato nella lettura e ho scoperto una fertile corrispondenza di intenti tra la tesi del libro e tutta l’azione del CSV. Difendere la soggettività dei pazienti dalle etichette con cui li si vuole “descrivere”, come denuncia Melio, è parte del nostro lavoro, continuamente teso a dipanare l’etichetta “volontariato” e a restituire la pienezza delle storie delle persone e delle comunità che si celano dietro questo schermo. E a loro volta gli stessi volontari e le stesse e volontarie sono spesso impegnati a fare un’azione dello stesso tipo, e cioè a restituire una soggettività narrativa, una individualità a persone e luoghi che sono stati appiattiti e bidimensionalizzati da una definizione, etichettati come qualcosa che ne occulta la personalità a favore di una specifica caratteristica. La presentazione è stata organizzata dal Circolo Bateson, del quale Casadio è un amico e collaboratore, un gruppo “intersezionale” che coerentemente con l’azione multidisciplinare portata avanti da Gregory Bateson propone una felicemente serissima e rigorosa rilettura delle vicende attuali e umane in termini relazionali e sistemici. In un mondo che sempre più si fa schiavo della tecnica e che confida in un ruolo salvifico della rielaborazione digitale, evitiamo per una volta di parlare di “intelligenza”, il Circolo Bateson ci ha spesso aiutato a rifocalizzare l’importanza di dare soggettività e restituire centralità all’esperienza umana, anche quando questo ha significato sottrarsi alle sirene di un facile “invito al consumo” e prendersi la responsabilità delle proprie scelte e posizionamenti. La denuncia di Melio e l’intento con il quale Luca Casadio propone la sua ricerca richiamano e invitano proprio a mantenere e difendere questo tipo di soggettività e “quadridimensionalità” anche nei confronti delle persone affette da patologie, psichiatriche e non.

Il volontariato e la difesa della singolarità dal protocollo
Il volontariato tutto ha di che giovarsi della sfida e dall’approccio proposto da Casadio in “Psicopatologia narrativa”. I volontari che animano le associazioni che si rivolgono al CSV sono tutti coinvolti in una difesa della storia del singolo di fronte alla standardizzazione proposta dal trattamento, dal protocollo, dall’impianto burocratico, che dimentica la persona, in ambiti sempre più precoci ed estesi, dietro l’etichetta e applica a migranti, disabili, adolescenti a rischio, Hikikomori, Bes, pazienti, ADHD e ancora standard di trattamento che spesso lasciano il soggetto in balia del protocollo di cura. In un altro libro: “La danse en lutte” presentato recentemente a Parigi, si confrontano e raccontano diverse esperienze di ricerca di sé, riflessione, protesta, resistenza in cui allo specifico tema sociale sia abbinata l’arte, la danza nello specifico, ma anche l’uso consapevole del corpo e della presenza fisica dei soggetti coinvolti, per testimoniarne la soggettività e il coinvolgimento verso il cambiamento desiderato e il senso della propria efficacia nel promuoverlo e determinarlo. Nell’ultimo capitolo di “La danse en lutte” si parla di azione verso e con malati di HIV, e l’importanza di sostenere con la propria esperienza e consapevolezza un percorso di guarigione che non è solo legato al protocollo di cura, ma ingaggia e attiva la propria storia e partecipazione. Affermando che “Il medico conosce la cura, ma il malato è il vero esperto della malattia e del suo effetto su sé stesso”.
Purtroppo sono molti i campi in cui lo strapotere delle diagnosi si sostituisce a una relazione con il paziente e la forza della scienza medica (se così possiamo definirla) impone spesso una passività della persona, che passa dall’avere una condizione di disagio ad essere direttamente etichettata come malata (Melio parla di “disabilizzazione”) e a perdere voce in capitolo rispetto alla propria evoluzione. La diagnosi, se porta con sé un impianto strutturato di intervento può avere l’effetto “bidimensionalizzante”, nel senso che blocca la persona in una fotografia, la etichetta, invece che comprenderla e valorizzarla nella sua capacità di rielaborazione evolutiva, riconoscendone quindi la sua presenza, il suo “volume nel tempo”, nelle quattro dimensioni. E allora viva la fatica di mettersi in gioco in prima persona e di chiamare l’arte al proprio fianco, come chiude Casadio la propria dichiarazione di intenti dove scrive: “…credo fortemente che solo l’arte e la scienza unite ci permettano di ricomporre un’immagine complessa e sfaccettata dell’uomo e dell’esistenza, con le sue battute d’arresto, le ansie, gli inciampi e le inevitabili malattie che da sempre incontriamo nel nostro meraviglioso e condiviso cammino”. E teniamo caro questo riconoscimento ineluttabile della nostra fallibilità. Non solo è essenziale per restituire a ciascuno la dignità nell’affrontare i momenti di “inciampo” e disagio, ma smonta quella pretesa di perfezione, immaginata e promessa dalla tecnica, che condanna l’uomo a considerare ogni naturale mancanza come un fallimento patologico.
Immagine di copertina: manuel m. v.
