Ovunque sono a casa mia
"È in quel momento, spesso, che distogliamo lo sguardo da quello dell’Altro. E che l’Altro ci diventa estraneo". Una riflessione di Jean Claude Izzo sull'incontro e sull'identità
di Redazione
22 Giugno 2015
In questi giorni in cui ci confrontiamo con la paura dello straniero, con l’egoismo di popolazioni benestanti che chiudono le frontiere a rifugiati e richiedenti asilo, con sussulti identitari facilmente strumentalizzabili, riproponiamo un brano tratto da “Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo” di Jean – Claude Izzo, per gentile concessione delle Edizioni E/O.
«La cosa forse vi stupirà, ma non sono un viaggiatore.
Appartengo all’erranza. Mio padre, dato che aveva incontrato una bella sivigliana, si è fermato lungo la via dell’esilio. A Marsiglia. Sarei potuto nascere altrove, come i miei cugini. A Buenos Aires, o a New York. Oppure in Canada, dove poco dopo la guerra i miei genitori sognavano di andare a vivere. Non avrebbe fatto nessuna differenza. Qui o altrove, ero figlio di un esule. È il mio unico bagaglio. La mia unica eredità. La mia memoria. E dunque la mia storia. Questo significa che il sangue che mi scorre nelle vene non appartiene a una razza, a un paese, a una terra. Nemmeno a una nazione. Un giorno dovrò spiegarlo tutto questo, magari meglio di come ho fatto nei miei romanzi. Raccontando gli itinerari dei miei vecchi amici, armeni e greci, spagnoli e gitani, figli dell’erranza anche loro. “Essere di un altro posto” cambia tutto. Il mondo lo guardi in modo diverso. Intendo dire che ovunque mi trovo, sono a casa mia. Anche in quei paesi di cui non padroneggio la lingua. Mi basta leggere un racconto di viaggio, un romanzo di uno scrittore per appropriarmi del suo territorio, dei suoi ricordi. E diventare il suo gemello. Questa sensazione l’ho provata per la prima volta leggendo Nozze a Tipasa, di Camus. Mi sentivo algerino. Mi venne voglia di Algeria, appassionatamente. Dopo, poco dopo, mi sono ritrovato in Etiopia. A Harar, per l’esattezza. All’inseguimento di Rimbaud. Avevo appena vent’anni. Lì ho imparato la libertà del ramingo, quella di muoverti non per scoprire, incontrare, imparare, ma per fonderti nell’altro, e vedere con i suoi occhi l’“altro mondo”, quello da cui provieni. Quindi sono stato anche etiope.
Sono stato egiziano, una notte, al Cairo. Turco, qualche volta. Ma anche irlandese, e argentino per amore. Spesso mi succede ancora di essere italiano, o spagnolo. E se è vero che sono stato di tanti altri paesi, oggi sogno di essere del Laos, a volte anche del Giappone, per via di uno scrittore di nome Haruki Murakami. Certe volte, ve lo devo dire, non so nemmeno più se ho vissuto all’Avana, a Bali, a Missoula o a Shanghai, oppure semplicemente se ho letto troppo Cendrars, Hemingway, Luis Sepúlveda, Jim Harrison e James Crumley, Vicki Baum, Stevenson, Melville, Conrad, e Mac Orlan, che oggi nessuno legge più. Tutto questo ha poca importanza, in fin dei conti. Il vero e il falso. L’immaginario è una realtà, a volte più reale della stessa realtà.
Conrad lo spiegherebbe meglio di me. L’importanza di permettere alla realtà di trovare la sua logica.
Troppo spesso non osiamo andare fino in fondo a noi stessi. Incrociamo lo sguardo dell’Altro come un invito. Ma rimaniamo sul molo. Perché il molo è quanto di più sicuro esista, non è forse vero? La terraferma. La terra che viene a ricordarci che siamo di qui, di un paese, di una razza, di una nazione. I moli generalmente li preferiamo quando abbiamo programmato il motivo di trovarci lì. Un viaggio. Una vacanza. Per un tempo determinato. Con una guida turistica in mano. Il biglietto di andata e ritorno in tasca. Sappiamo che partiamo e che ritorneremo, naturalmente, allo stesso molo. È in quel momento, spesso, che distogliamo lo sguardo da quello dell’Altro. E che l’Altro ci diventa estraneo. Ostile. Un estraneo è necessariamente ostile al paese, alla razza, alla nazione a cui ad alta voce ci dichiariamo appartenenti. Non so se mi avete seguito bene fin qui. Mi piace credere di sì. E pensare che non serve a niente correre altrove, se non ci riconosciamo nello sguardo dell’Altro. È per questo, credo, che la maggior parte dei villaggi turistici somigliano a campi trincerati. Non cerchiamo di incontrare l’Altro. Vogliamo soltanto quello che gli appartiene. Il suo mare, le sue spiagge, le sue palme. Tutte queste cose le ho imparate da mio padre. E Marsiglia ha perfezionato la mia educazione. Al di là dell’orizzonte, che guardavo dalla punta della diga del Large, sul porto, sapevo di avere cugini, cugine, con i loro numerosi figli. Sono ancora in qualche posto, laggiù, ma non so più dove. Da quale parte del filo spinato che divide Cipro tra greci e turchi? Su quale ipotetica frontiera del Rwanda? In quale nazione dell’ex Iugoslavia? O in quale malsano campo nomadi alle porte della città? Quando penso a loro, mi cominciano a prudere i pie di, tiro fuori la mia valigia di cartone e medito di mettermi in viaggio. Per andargli incontro, e condividere quello che abbiamo in comune: il piacere dell’universo. Il piacere che assaporo quando, nell’immobilità dell’aria d’estate, a mezzogiorno, a casa mia, mi metto nei panni di un indiano leggendo Louis Owens.
Sogno grandi spazi. Reinvento il significato della terra. E in quel momento mi ricordo di un popolo civilizzato che diceva che un buon indiano è un indiano morto. E così scopro di avere i brividi, perché sulle vie dell’esilio il tempo è freddo».