PADIGLIONE 25: PER NON TORNARE AI MANICOMI
L'autogestione del padiglione di un manicomio è diventata un libro e un film: se ne parlerà il 13 aprile al Cinema Detour di Roma
09 Aprile 2018
Roma, estate 1975: un gruppo di infermieri dell’Istituto Manicomiale S. Maria della Pietà, sull’onda delle idee di Franco Basaglia, prendono la decisione di occupare e autogestire uno dei padiglioni del manicomio, il Padiglione 25. Inizia così, per quei quattordici infermieri, un’esperienza rivoluzionaria.
Osservano «il non rispetto delle vecchie regole», iniziano un lavoro lento e faticoso di reinserimento progressivo dei degenti nella società e scrivono un diario, da cui emerge con forza che cosa fosse il manicomio «e di cosa fosse fatto il lavoro per smontarlo», come scrive Maria Grazia Giannichedda, nel suo saggio introduttivo al libro Padiglione 25. Autogestione in manicomio (Ediesse, 2017), a cura di Claudia Demichelis, a cui è collegato anche il film Padiglione 25 – Diario degli infermieri, di Massimiliano Carboni e Claudia Demichelis.
L’occasione per vedere il film, e parlare del libro, sarà la serata evento Robba da matti – Storia del Padiglione 25, venerdì 13 aprile alle 20 al cinema Detour (via Urbana, 107, Roma).
Ma perché è importante rivivere oggi un’esperienza come quella? «È importante perché siamo in un periodo in cui assistiamo ancora ad abusi psichiatrici, a una rimaniacomizzazione di luoghi che erano destinati ad essere dismessi: era importante non far calare l’attenzione su queste vicende» ci spiega Claudia Demichelis. «Dall’altra parte l’intento era quello di portare queste storie fuori dalla psichiatria, provare a utilizzarle come paradigma di un messaggio che possa essere applicato ad altre realtà in cui ci si trova a lavorare dentro le istituzioni, si riceve un mandato, e, di fatto, poi ci si trova a lavorare con persone, con relazioni che dovrebbero far vacillare il mansionario standard. Abbiamo pensato a qualsiasi ambito in cui occorra andare al di là delle strette regole, dare un segnale che possa far progredire la società dal punto di vista dell’inclusione».
GLI INFERMIERI, IL PENULTIMO ANELLO DELLA CATENA. Il racconto di Claudia Demichelis inizia dagli infermieri, figure che arrivavano nei manicomi dopo brevi corsi professionali, senza alcuna cognizione di causa. Le loro consegne erano semplici: chiudere il paziente, non parlargli.
«Eravamo la mano legale della società di allora», racconta uno di loro. E anche il penultimo anello della catena, giusto prima dei pazienti. «Una figura attanagliata dal duplice ruolo del controllore e controllato, con pochi strumenti culturali, e una forte spinta a reagire, perché sono i primi a pagare il pegno dei regolamenti» riflette Claudia Demichelis. «Mentre le altre categorie, pazienti e medici, avevano una versione molto solida della loro esperienza, gli infermieri spesso evitavano di rispondere, glissavano: erano proprio loro gli aguzzini, quelli che facevano l’elettroshock. Spesso la risposta vaga era un tentativo di rimozione. Poi queste interviste portavano queste persone a prendere una parte».
Eppure quegli infermieri si mossero, presero una posizione, in linea con i tempi che stavano vivendo. «Molti erano sindacalizzati, politicizzati, appartenevano al Pci o a Lotta Continua, si muovevano nelle assemblee, negli eventi culturali» ci spiega l’autrice. «Gli infermieri erano 14, ma almeno la metà di loro aveva ben presente quello che avveniva nella società e sperimentava una maggiore sofferenza nel dover lasciare fuori le proprie lotte ogni volta che varcava quel cancello».
RISTORICIZZARE IL PAZIENTE. Togliere le sbarre alle finestre. Dare il vitto a orari più congeniali, e apparecchiare con forchetta e coltello. Eliminare le fasce di contenzione. Ma una delle prime cose da fare era quella di ristoricizzare il paziente, che in manicomio era privo di alcuna anamnesi remota. La sua vita iniziava e finiva lì.
«Si trattava di ricercare la sua situazione, la sua provenienza» riflette Claudia Demichelis. «La ristoricizzazione non si fa solo in un setting, ma si fa all’esterno. “Il nostro lavoro non è più solo dentro, ma anche fuori”, dicono gli infermieri. È una maggiore responsabilità, ma è proprio la radice della riforma basagliana: portare i servizi dentro la società, portare le persone nei paesi di provenienza è un primo passo di quello che sarà il lavoro della riforma».
Andare fuori è uno dei momenti più emozionanti, e anche temuti, per paziente e infermiere. Fuori per comprarsi un paio di scarpe, entrambi madidi di sudore per la paura. Per andare al mare. Per tornare a scuola, o per ritrovare un lavoro. Tornare a casa per Natale. Ma anche capire che non si è voluti. Che la società non vuole integrare i pazienti. «Era stato un esperimento, e tutti gli esperimenti sono un po’ sfrenati» commenta l’autrice.
«L’idea del paziente riportato a casa era una direzione, che non sempre portava i risultati sperati: spesso le famiglie erano l’origine stessa dei problemi di queste persone, portarli a casa per forza poteva essere un limite. La riforma dice: va bene la famiglia, ma portiamoli in luoghi protetti. Senz’altro una qualche velleità c’è dentro questa esperienza. Ma non sarebbe stata un’esperienza antesignana se non avesse avuto degli elementi di velleità». L’esperienza è destinata a finire tragicamente, tra un omicidio, da parte di un paziente ai danni di un altro, e lo sfinimento degli infermieri, boicottati dall’istituzione e abbandonati.
TU CHIAMALE, SE VUOI, EMOZIONI. Padiglione 25 non è il solito documentario: ci sono le interviste, ma c’è anche un’evocazione degli spazi del manicomio, ci sono immagini preziose di repertorio, e inserti d’animazione. «Padiglione 25 è un film, non è un documentario: punta a costruire un lavoro basato sulle emozioni» ci spiega il regista Massimiliano Carboni. «Non mi interessava costruire un documento, ma dare un affresco più emozionale. Ciò non vuol dire che non fosse basato su dati certi, anzi, per arrivare a sintetizzare in un’immagine di un telefono che squilla, una sequenza di due minuti, ci sono voluti due anni di lavoro, per entrare nelle dinamiche di un’istituzione totale come il manicomio, per arrivare a una sintesi efficace degli oggetti del quotidiano stesso».
C’è una storia nella storia, quella di un viaggio in aereo di alcuni pazienti nella Trieste di Basaglia, che racconta il ruolo di Maria Grazia Giannichedda in questa storia. «È avvenuta nel 1975, l’anno in cui a Roma i nostri infermieri stavano combattendo la loro battaglia. Mi è sembrata evidente la differenza dei due contesti, tra Basaglia e la sua equipe e quello di Santa Maria della Pietà: questa storia va collocata in un complesso da 2000 ospiti, reclusi, e 600 infermieri. Quello che succedeva a Roma era molto diverso da quello che succedeva in piccole città». E poi, finalmente, si vede e si ascolta Franco Basaglia. «È un lavoro che nasce da una mia fascinazione, ho scoperto il suo pensiero, mi sono appassionato. C’è un documento importante dove è sintetizzato bene quello che pensa. Quella degli infermieri è un’esperienza basagliana, anche se non hanno gli strumenti intellettuali: mi sembrava importante che questo fosse chiaro e riconosciuto».
LA MANICOMIALITÀ È OVUNQUE. Se quella società non ci sembrava pronta ad accogliere il disagio mentale, quella di oggi lo è? «Oggi la società reagisce in modi diversi, dall’isteria alla comprensione. È un fattore abbastanza comune, vediamo come reagisce alle migrazioni e altre situazioni dove ci sono delle differenze» risponde il regista. «Non ho risposte, ma una presunzione: quella di restituire il protagonismo a chi lo deve avere, i soggetti devono avere la possibilità di raccontarsi alla società». E torniamo al punto da cui siamo partiti. I manicomi sono veramente superati? O le cliniche private, come sentiamo dire nel film, oggi sono qualcosa di molto simile? «Il problema c’è, nelle cliniche private» riflette Claudia. «L’elettroshock non è vietato dalla legge, si fa in maniera diversa, ma si fa. Ma ancora di più permane la contenzione, e quello è il manicomio. La manicomialità è ovunque, ad esempio nei centri per gli anziani: non solo non funziona la riforma, ma anche tante strutture a cui è demandato il compito di gestire forme di marginalità, come l’immigrazione, o di fragilità, come gli anziani e i bambini».