PARALIMPIADI: IL FLOP DI RIO
Biglietti invenduti, tagli al budget e lo Stato di Rio che rischia il default. Un’occasione di cambiamento culturale persa. Per fortuna lo sport va avanti
13 Settembre 2016
La camminata incerta, il bastone in una mano e la fiaccola olimpica nell’altra. Poi la caduta e il mondo che trattiene il fiato: Marcia Malsar, una delle ultime tedofore e prima brasiliana paralimpica a mettersi al collo una medaglia d’oro (New York, 1984), si accascia a terra insieme al simbolo dello sport, poi si rialza e conclude il suo percorso tra gli applausi del pubblico. Siamo appena all’inaugurazione delle Paralimpiadi di Rio e arriva già un’incredibile immagine di forza e speranza. Simbolica, per tutti i 38mila atleti che dal 1960 ad oggi hanno gareggiato in questo straordinario appuntamento con la storia: in Marcia Malsar c’è la voglia di reagire alla vita di tutti gli atleti disabili, la fierezza di chi si rimette in gioco per se stesso e per il proprio Paese.
Perché lo sport riabilita e ci ricorda che le Paralimpiadi fanno bene. Sono terapeutiche per chi le fa (i benefici fisici, psicologici e cognitivi degli atleti), per chi le guarda (chi non ha mai provato un’improvvisa voglia di vivere dopo ogni impresa paralimpica?) e per la città che le ospita. Rio de Janeiro, in questo caso, ha ereditato uno straordinario lascito, che arriva dall’Inghilterra e dal successo dell’edizione delle Paralimpiadi di Londra 2012: lì è cambiato il modo di percepire la disabilità, non solo in ambito sportivo. Tra il Tamigi e Buckingham Palace, gli atleti disabili si sono tolti i panni di supereroi, per indossare quelli da “Super umani”, come li ha definiti la campagna pubblicitaria di Channel 4, il canale britannico che ha trasmesso in diretta tutte le gare. Grazie a Londra abbiamo capito che le Paralimpiadi non sono un’isola felice, né una festa dell’uguaglianza e della solidarietà di facciata. Ma che, con un po’ di voglia e della sana educazione civica, si può iniziare un percorso sociale di integrazione.
Paralimpiadi di Rio: siamo all’anno zero
La Capitale inglese, con le Olimpiadi, ha modificato il proprio ambiente, adattandosi sempre di più alle esigenze dei disabili. È migliorata sotto ogni punto di vista: dalle barriere architettoniche abbattute ad una politica di ampio respiro che è entrata addirittura nelle scuole, parlando ai bambini di rispetto nei confronti della disabilità.
Il governo ha stanziato il Fondo per lo Sport inclusivo, per un totale di 10 milioni di sterline e oggi, in Inghilterra, c’è un 3% in più di atleti con disabilità.
Nelle gare paralimpiche sono stati venduti 3 milioni di biglietti, mentre in tv oltre 100 paesi hanno fruito dello spettacolo, con 11 milioni di britannici davanti allo schermo in occasione della cerimonia d’apertura. Insomma, a Rio si poteva fare solo peggio.
E le previsioni pessimistiche della vigilia si sono avverate. Il contesto sociale brasiliano ha dato problemi anche in occasione delle Olimpiadi agostane e di certo non sta aiutando gli atleti paralimpici. Eppure si rischia di andare oltre, verso qualcosa che assomiglia molto ad un flop. Sono stati venduti solo la metà dei due milioni e mezzo di biglietti previsti (il cui costo partiva da 3 euro circa) e a causa di una serie di tagli al budget inizialmente previsto, e Philip Craven, presidente del Comitato Paralimpico Internazionale, ha addirittura ammesso: «mai prima d’ora nei 56 anni di storia dei giochi ci siamo trovati di fronte a una situazione così difficile».
Lo Stato di Rio raschia il default e non paga più regolarmente pensioni e stipendi di tutti i suoi dipendenti, poliziotti e forze dell’ordine compresi. Aver puntato tutto sulle Olimpiadi in un’epoca nella quale la situazione economica era estremamente migliore, assume oggi i contorni di un grande azzardo mal riuscito. Il Brasile ha speso oltre le proprie possibilità sia nella costruzione di infrastrutture olimpiche che in quelle di mobilità urbana e ha gettato dalla finestra decine di miliardi per il piano di pacificazione delle favelas. Fallito anche quello.
Peccato non esserci stato ad Agosto
Per fortuna, seppur con molte difficoltà, lo sport sta andando avanti e ogni giorno assegna medaglie ad atleti straordinari. Ha fatto notizia, nei giorni scorsi, la belga Marieke Vervoort, oro e argento a Londra su 100 e 200 metri in sedia a rotelle, che ha già dichiarato di aver firmato le carte per l’eutanasia.
Insopportabile il dolore che le sta provocando la malattia e un solo desiderio: vincere ancora (è considerata una Bolt della specialità) e poi impedire a sé stessa di vivere come un vegetale per il resto dei suoi giorni. Le luci della ribalta sono invece piombate nelle ultime ore su Abdellatif Baka, atleta ipovedente algerino che ha corso i 1500 metri di atletica leggera 1 secondo e 61 decimi in meno di Matthew Centrowitz, il campione olimpico dei normodotati. «Sono strafelice, peccato non esserci stato anche ad agosto», ha commentato divertito Baka dopo la gara.
In quel sorriso sincero, forse, c’era anche un pizzico di recriminazione per un regolamento su cui proponiamo una riflessione: perché far iniziare i Giochi paralimpici con così tanto ritardo rispetto alle Olimpiadi di Bolt e Phelps? Nonostante gli sforzi che riconosciamo all’organizzazione brasiliana e alla nostra Rai, molti appassionati si sono fermati al 21 agosto e alla cerimonia conclusiva delle Olimpiadi, perdendosi uno spettacolo sportivo che invece meriterebbe almeno la stessa visibilità. Tanto è stato fatto rispetto al passato – Londra insegna e Tokio sta già lavorando per superare le difficoltà di Rio, che comunque ha aumentato ancora il numero di nazioni partecipanti e di sport (16 Paesi e 3 discipline in più) – ma ragionando su un’ipotetica linea del tempo, a parte qualche eccezione, siamo appena all’anno zero. All’inizio di un percorso che speriamo porterà all’accettazione totale, e non solo a parole, della disabilità.