PESO MORTO: ANGELO MASSARO, 21 ANNI SCONTATI PER ERRORE
Peso morto, presentato al festival Castiglione del Cinema, racconta la storia di Angelo Massaro, arrestato nel 1996 per un reato mai commesso e uscito dal carcere nel 2017, finalmente dichiarato innocente 21 anni dopo
12 Ottobre 2023
«La prima cosa che ho fatto da uomo libero è fare il bagno. Ricordo che faceva freddo, ma era una bella giornata. Ho cominciato a sentire il contatto con i piedi sulla sabbia, una cosa che mi mancava da decenni. Sono entrato in acqua e ho cominciato a nuotare, fin quasi allo sfinimento. Ero come un bambino, ero felice, ero pazzo di gioia. Mi sono come disintossicato. E sott’acqua ho fatto un paio di urli. Perché non volevo che mi sentisse nessuno». Inizia così, con un catartico bagno in mare, Peso morto, il film di Francesco Del Grosso, presentato al recente Festival Castiglione del Cinema, che racconta la sconcertante storia di Angelo Massaro, arrestato il 15 maggio del 1996 per un reato mai commesso, e uscito dal carcere, dopo la revisione del processo, finalmente dichiarato innocente, solo nel 2017, 21 anni dopo. Era stato condannato a 24 anni. Quella pena, ingiusta, l’ha scontata quasi completamente. Peso morto ha iniziato il suo viaggio un anno fa al festival Visioni del mondo e sta girando i festival di tutto il mondo, in cui ha vinto 22 premi. Viene proiettato nelle scuole e nelle università: sul sito dell’associazione Errorigiudiziari.com è disponibile l’elenco delle prossime proiezioni, ma è anche possibile contattare l’associazione per organizzarne una. Angelo Massaro viene arrestato il 15 maggio 1996, due giorni dopo il suo anniversario di matrimonio. È in casa con la moglie, il figlio di due anni e mezzo e il piccolo con 45 giorni di vita. Arrivano i carabinieri. «Deve venire con noi». E non danno spiegazioni. Viene portato nel carcere di Taranto. A quel punto sembra una cosa seria. Ma Angelo è tranquillo, non ha fatto niente. L’accusa è di aver ucciso e fatto sparire il suo migliore amico, un amico fraterno, scomparso qualche giorno prima. La chiave è una telefonata alla moglie una mattina in cui, trainando un bobcat per dei lavori edilizi, dice alla moglie che sta trasportando un “muers”, un peso morto, intendendo quello strumento. Gli inquirenti, dalla telefonata, capiscono “muert”, morto. In base a questo viene condannato. E inizia una vicenda kafkiana, un incubo, un’Odissea umana e giudiziaria. Se non ce lo stesse raccontando con le sue parole, non ci crederemmo.
Un’associazione contro l’ingiusta detenzione
Questa storia è diventata un film, un documentario. «Nasce da un incontro con un’associazione che si chiama Errorigiudiziari.com, fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, che da 25 anni si occupano di errori giudiziari e ingiusta detenzione» ci spiega il regista Francesco Del Grosso. «Hanno fondato un database con tutti i casi di errori giudiziari in Italia dal secondo dopoguerra. Mi avevano contattato per un primo documentario, Non voltarti indietro, che raccontava la storia di cinque vittime di errori giudiziari, persone comuni che hanno scontato condanne per reati che non avevano commesso. Dopo quella prima esperienza volevamo continuare a raccontare gli errori giudiziari, ma volevamo trovare qualcosa di diverso. Nel frattempo, nel 2017, esce dal carcere Angelo Massaro, uno degli errori giudiziari più gravi della storia della Repubblica Italiana. Me lo hanno presentato e da lì è partito tutto, qualche anno dopo il suo rilascio, dopo un processo di revisione, dopo aver trovato le prove che lo hanno scagionato». «Era stato accusato di un omicidio che non ha mai commesso, senza movente, senza arma del delitto e senza corpo: è stato condannato a 24 anni. È rimasto in carcere per 21 anni, materialmente ha fatto tre anni in meno della condanna. Già di per sé il caso era agghiacciante, era impossibile girarsi dall’altra parte. 1000 persone all’anno finiscono in carcere, 3 al giorno, una ogni 8 ore. Tra queste persone c’è stato Angelo. La sua storia era già di per sé un film: abbiamo optato per un documentario indipendente e autoprodotto, al quale ha partecipato in fase esecutiva la Black Rock Film».
Persone cadute tra le maglie di un sistema giudiziario impazzito
Francesco Del Grosso ascolta la voce di Angelo, in una lunga, toccante intervista, ma anche tante altre voci, tra cui quella di un’altra vittima di un errore giudiziario. «Siamo persone cadute tra le maglie di un sistema giudiziario impazzito», dice uno di loro. Ed è davvero sconcertante che accadano simili errori. «Quello che posso dire, anche perché non sono un tecnico, è che il sistema ha delle falle» riflette Francesco Del Grosso. «Questo non è un film contro la magistratura: ci sono tanti magistrati che fanno il loro lavoro in maniera ottima. Ma molti processi presentano falle già dall’inizio, a partire dalle indagini. Una maggiore concentrazione, una maggiore cura nelle indagini porterebbe i magistrati a sbagliare molto meno. Ma, soprattutto, non ci deve essere una vena pregiudiziale. Mi rendo conto che ci sono miliardi di processi ogni anno, e c’è stato il Covid, ma nel caso di Angelo gli errori sono stati clamorosi. Non so se il problema potrà essere risolto, ma si può contribuire a diminuire questi errori. Se un chirurgo sbaglia un’operazione è perseguibile penalmente. Se un magistrato sbaglia no».
21 anni di vita sottratti
«Dietro questi errori, poi, ci sono gli indennizzi. Angelo non lo ha ancora ricevuto. E quante cose si potrebbero fare risparmiando questi risarcimenti? Anche se poi i risarcimenti non sono mai abbastanza» riflette il regista. Ma nessun risarcimento – qualsiasi possa essere l’ammontare – può restituire a una persona 21 anni di vita. «E in ogni caso questa persona non ha potuto fare il padre, non ha potuto fare il marito, gli sono stati sottratti 21 anni, quasi una vita. È uscito ed era una sorta di extraterrestre: il mondo era completamente cambiato. Il film gli ha dato una mano a prendersi una sorta di riscatto personale, è testimonial di Errorigiudiziari.com, gira con noi accompagnando il film». Ma non ci sono solo i casi limite, che durano 21anni. «Ci sono persone che anche per un mese, o quattro giorni, in carcere da innocenti, vengono completamente segnate da un punto di vista fisico e piscologico» ci spiega Del Grosso. «Ci sono persone che riescono a dimostrare la propria innocenza, altre che muoiono in carcere suicide perché non ce la fanno a reggere la pressione. Oppure ci sono famiglie che rischiano di essere distrutte. La forza di Angelo è stata anche quella di aver avuto dietro una famiglia compatta che gli ha dato una mano a resistere».
Insieme a me hanno condannato la mia famiglia
È proprio questa una delle chiavi della storia. Peso morto ci racconta molto bene anche quali sono, in questi casi, le difficoltà della famiglia. Di quei bambini che, in giro, vedono sempre gli altri bambini con il loro padre e la loro madre, mentre per loro non è così. Quella moglie che lo ha aspettato per vent’anni e ai figli ha provato a dire sempre qualcosa di buono del padre. Fino a un certo punto ha detto loro che il padre lavorava, poi, una volta grandi, ha dovuto dire che è stato arrestato per una cosa che non aveva fatto. «Io sono stato condannato ingiustamente. E insieme a me hanno condannato la mia famiglia» dice Angelo nel film. «Li chiamano danni collaterali. Ma sono danni principali» commenta Del Grosso. «Chi sta fuori subisce anche tutto quello che è la società. E quindi lo stigma. Il “tu sei la moglie di”, “tu sei il figlio di”. In una piccola realtà come quella che viveva Angelo questa cosa veniva ingigantita, e rendeva la vita un inferno. Ma loro hanno saputo resistere». «Il film è concentrato sia sulla parte familiare che quella individuale di Angelo, una non poteva fare a meno dell’altra da un punto di vista drammaturgico. Questa è un’odissea prima umana e poi giudiziaria. Qualcuno avrebbe raccontato soltanto questa parte, la più eclatante, ma solo così si capisce il vero impatto sulla vita di Angelo».
Tornare indietro a quei momenti
Insieme a Francesco Del Grosso, Angelo Massaro ripercorre i luoghi dei fatti, i tribunali, le carceri dove è stato. Incontra le persone con cui ha avuto contatti, come lo psicologo e il prete del carcere di Catanzaro, rivive la sua vita. Ha Il volto fiero, ma ancora scosso, indurito. Si vede che è un’esperienza che lo ha segnato per sempre. «Noi giravamo mentre viaggiavamo» commenta il regista. «Così Angelo si ritrovava di nuovo catapultato in una serie di situazioni. Pensiamo al suo ingresso in carcere: nel carcere di Catanzaro non ci era ancora rientrato. Tutto quello che si vede sullo schermo, le sue mutazioni, i suoi cambi di umore, è tutto vero. Non c’è niente di scritto: lui sta rivivendo quei momenti. Volevamo permettergli di raccontare e raccontarsi, in una sorta di flashback volontario da parte nostra, ma involontario da parte sua. L’intervista principale è durata otto ore. Ha rivissuto nella sua testa tutta una serie di cose». Ma è proprio la dimensione del viaggio a funzionare nel film. «Faccio documentari da vent’anni, e ho capito cosa funziona e non funziona» ci spiega il regista. «Una delle cose che funzionano è l’interazione con i luoghi. Volevo che le persone si emozionassero, che provassero emozioni universali. Non partecipare a un funerale di un tuo caro, non poter fare il padre nei momenti più importanti sono tutte cose che tutti possono capire. La nostra voleva essere in primis un’esperienza sensoriale, il film nella sua versione definitiva è in 5.1.: nell’audio rivivi i suoi attacchi di panico, risenti i rumori dell’epoca, il rumore della ferraglia del blindato. La scelta di fargli fare un viaggio drammaturgicamente forte è venuta dal fatto che, dopo essere stato per 21 anni in una cella, due anni dopo si è trovato alle prese con il Covid. Il viaggio è dall’uscita dal carcere fino al ritorno a Fragagnano, il suo paese, dove tutto è cominciato. Volevo che tutto fosse più cinematografico».
C’è gente che lì non ci dovrebbe stare
Ma, oltre che una storia di errori giudiziari e di redenzione, Peso morto è anche la storia della vita dentro al carcere, e dentro le camionette blindate dei trasferimenti. Quel carcere dove non sei più una persona e neanche un numero. Sei uno dei tanti colpevoli, devi stare zitto, non devi dare fastidio. Quel carcere che ti annienta, ti annulla. E poi quegli spostamenti nei furgoni blindati, dove tutto è in ferro, lamiera. Dove non c’è una finestra, ma solo un buco forellato. Dove vieni ammanettato con pezzi di ferro, come le manette ottocentesche. Nove ore, sei ore, in cui stare fermi, senza potersi muovere. Una tomba di un metro e ottanta, cinquanta per cinquanta. È l’interno di un carro bestiame. E la dignità di uomo libero è calpestata, svuotata. «Angelo ha fatto anche il carcere duro, è stato in isolamento. Questo ti distrugge dentro. Ha avuto una capacità di resistenza che è da extraterrestre. Ora è sempre in movimento: la sua è quasi una reazione epidermica a quello che ha vissuto. Ha protestato, si è fatto valere. Ha combattuto non solo per se stesso, ma per la comunità. Siamo in un’epoca dove queste cose dovrebbero essere trattate in un’altra maniera. Lui dice che tanti entrano in carcere da uccellini ed escono aquile: molti si incattiviscono ancora di più. Ha studiato, ha iniziato a fare yoga, soluzioni per non fare branda dalla mattina alla sera. È una lotta individuale, ma anche collettiva. Per ribadire la sua innocenza. Ma anche per far capire che, in mezzo a tanta gente che sbaglia, c’è gente che lì non ci dovrebbe stare. E non può patire il doppio».