PIANO SOCIALE DI ZONA: SI PUÒ FARE DI PIÙ

Un contributo di Raimondo Raimondi, presidente della Consulta del Volontariato di Viterbo sullo stato dell'arte dello strumento del Piano sociale di zona

di Redazione

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Pubblichiamo un contributo a firma di Raimondo Raimondi, presidente della Consulta del Volontariato di Viterbo sullo strumento del Piano sociale di zona.

Cos’è un Piano sociale di zona ce lo dice la Treccani: «È un documento programmatico con il quale Comuni associati definiscono i servizi da erogare. Il piano viene redatto dall’Ufficio di Piano e condiviso con gli Enti del Terzo Settore. L’Ufficio di Piano è la struttura preposta a curare tutto il percorso del Piano dalla impostazione alla realizzazione e al monitoraggio».

Bello, no? Ma vediamo alcuni dati: 370.000 circa sono i dipendenti degli Enti Locali, distribuiti su 300 circa fra Comuni, Regioni, Province, con un rapporto di 135 dipendenti per ogni Ente. Il 60% circa dei rapporti degli Enti del Terzo Settore è con i Comuni. Un capoluogo di Provincia medio ha circa un dipendente ogni 160 cittadini e il bilancio dei Comuni è di circa 60 miliardi: il 30% per spese di amministrazione, gestione e controllo; il 21% su territorio e ambiente: il 15% per viabilità e trasporti; il 14% sui servizi sociali. (L. Vandelli, “Il governo locale”, Il Mulino). Questi dati evidenziano l’aspetto surreale di affermazioni del tipo “L’Ufficio di Piano deve essere stabilmente incardinato presso il Comune capofila” e di prescrizioni del tipo “La composizione minima dell’Ufficio di Piano deve comunque prevedere: un coordinatore; un esperto di programmazione sociale; un esperto amministrativo” (Linee Guida, ai sensi dell’art. 45 della L.R. n. 11/2016). Da anni, gli Uffici Di Piano celebrano davanti alle Associazioni di Volontariato il rito della convocazione dei tavoli del Piano di Zona, lo fanno di tanto in tanto e in ossequio ad una procedura. Possono fare di più? Forse sì, ma i dati riferiti non confortano questa risposta.

Coprogrammazione tra virgolette

Sicché, quei dati possono costringere il Responsabile dell’Ufficio di Piano a rifarsi ad una cultura che resiste all’art. 118 della Costituzione e alla Sentenza 131/20 della Corte Costituzionale, inducendolo a comportamenti frettolosi e superficiali evidenziati da avvisi di “coprogrammazione”, in ambito Piano di Zona, pubblicati appena una settimana prima della loro scadenza e dove si parla di “contratti” e “fornitori”, confondendo due ambiti amministrativi nettamente separati: quello della coprogrammazione e quello della fornitura di servizi. Ancora: la carenza di risorse umane, può causare la mancata diffusione alle Associazioni di Volontariato dei verbali di riunione o dello stato di elaborazione del piano, la cui conoscenza preventiva è necessaria ad una loro efficace interazione. Ma causare non è giustificare, anche in considerazione che nel Bel Paese vivono buone prassi, come quella del Distretto di Pavia. (Lettera al Responsabile dell’Ufficio di Piano del Distretto di Viterbo, prot. Comune Viterbo 24/4/24). Sicché, come si legge in un articolo di approfondimento di Terzjus del luglio 2023, in un Distretto, il 60% delle Associazioni di Volontariato coinvolte (si fa per dire) nel Piano di Zona arriva a sottoscrivere che “non potranno accogliere positivamente una proposta di Piano che non contenga impegni espliciti” almeno nel monitoraggio del Piano stesso. Sia chiaro: il volontariato vuole collaborare in un’amministrazione condivisa con i lavoratori della Pubblica Amministrazione, lavoratori sottodimensionati e spesso sottopagati. E sia chiaro anche che qualcuno dovrebbe capire che i Piani di Zona vivono di investimenti in personale (quanta % del PIL si è disinvestita sul personale amministrativo nell’ultimo quarto di secolo?) e di una nuova cultura di quel personale (per la formazione del personale amministrativo tante belle leggi dormono nei cassetti, invece di far sorridere gli addetti ai lavori con affermazioni surreali come quelle riferite sopra.

 

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