DAMBE SO: UNA CASA DELLA DIGNITÀ PER I BRACCIANTI
Dambe So è l'ostello sociale aperto nella Piana di Gioia Tauro per ospitare i braccianti. Un progetto di Mediterranean Hope (FCEI) che può finalmente smontare i ghetti. E che è replicabile
06 Luglio 2023
Dambe So significa casa della dignità, in lingua Bambarà, una delle più diffuse in Africa occidentale. È il nome, carico di significati, che è stato scelto per l’ostello sociale che, nel febbraio del 2022, ha aperto nella Piana di Gioia Tauro per ospitare i braccianti durante il periodo della raccolta agrumicola. Si tratta di un’idea potenzialmente rivoluzionaria che punta a cambiare finalmente le condizioni di vita dei braccianti, e che può essere un modello da replicare. L’ostello sociale Dambe So è parte dei progetti di Mediterranean Hope, il programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Ne abbiamo parlato con Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, noto anche per la sua attività di disegnatore, che per lui è un tutt’uno con quella di operatore. Non si definisce un’artista, ma un “disegnatore sociale” che racconta la sofferenza dei migranti, avendola condivisa in prima persona, nella vita prima che nei disegni. È lui l’autore di quelle immagini con il “mare spinato”, un mare che uccide, degrada e che, anche una volta superato, rimane addosso come una maledizione a chi lo ha attraversato. L’inizio della sua attività di disegnatore è molto toccante, e ve la racconteremo presto. Intanto abbiamo chiesto a Francesco Piobbichi, che è stato tra i protagonisti della Settimana del Rifugiato a Rieti con uno spettacolo teatrale, di raccontarci la storia dell’ostello sociale.
La chiave di tutto è il tempo
Quella di Dambe So è un’idea che arriva da lontano. È nata una decina di anni fa, a Nardò, nel Salento. «Conobbi un’associazione di base, di mutualità, Brigate di Solidarietà Attiva, con cui abbiamo fatto uno sciopero» ricorda Francesco Piobbichi. «Lì ho capito che uno dei punti principali per queste persone è il tempo. Il problema del lavoratore bracciante è che non ha potere, perché ci sono leggi sulle frontiere che gli impediscono di avere una stabilità. E perché il sistema della fabbrica verde concentra la forza lavoro in condizioni in cui il salario indiretto non c’è, cioè non ci sono politiche d’accoglienza degne, ma solo il campo, che affronta sempre l’accoglienza in una dinamica di tipo poliziesco». Così non è mai possibile che si stabilizzino le condizioni per cui questi lavoratori possano avere una dignità di salario e di vita. Un bracciante, infatti, è sempre costretto a rincorrere. «Pensiamo alla sua vita» riflette Piobbichi. «Lavora da mattina a sera, torna a casa e magari piove. Arriva alla tendopoli, dove non c’è l’acqua. Deve cucinare. Deve andare a letto, mentre c’è gente che urla. Come fai a organizzarti in termini di assemblea collettiva?». E così è nata la riflessione sulla chiave di tutto, il tempo. E partire da un luogo dove potersi fermare, riposare, vivere una vita dignitosa, era il punto di partenza.
Dambe So non è uno spazio gratuito: i lavoratori contribuiscono alle spese
È nato così l’ostello sociale, un’alternativa alla logica dei campi d’accoglienza. Non è uno spazio gratuito: i lavoratori contribuiscono alle spese con una piccola quota. Un’altra parte dei costi è sostenuta dalla quota sociale proveniente dalla vendita delle arance della filiera di Etika. «Il lavoratore contribuisce per 90 euro al mese alla spesa del mantenimento della struttura» ci spiega Piobbichi. «Non è che paghi l’affitto, ma non è neanche la carità. Si chiama casa della dignità: io sono un lavoratore, io posso pagare, e pago per quello che posso». «Dall’altra parte abbiamo aperto un ragionamento con Mani e terra, abbiamo costruito Etika, e con le chiese italiane e tedesche abbiamo venduto centinaia di migliaia di arance, riflettendo sull’utilizzo sociale della terra».
La quota sociale è un’idea politica
La riflessione sull’utilizzo sociale della terra è uno dei temi legati a questo progetto. «Vuol dire che la solidarietà non va fatta solo sul tema del biologico e del rispetto del lavoro, questo non basta più» ci spiega Piobbichi. «L’altro tema è costruire reti che, attraverso gruppi d’acquisto, contribuiscano a questa quota sociale». Ma a questo proposito si apre una grande discussione. «Se le piccole cooperative riescono a dare una quota consistente del proprio guadagno per sostenere Dambe So, perché la grande distribuzione non lo fa?» si chiede l’operatore di Mediterranean Hope. «E perché continuiamo sempre a far pagare allo Stato, cioè alla fiscalità generale, le politiche dell’accoglienza, quando in realtà chi dovrebbe pagare le politiche dell’accoglienza dei lavoratori braccianti dovrebbe essere la grande distribuzione? L’idea della quota sociale è un’idea politica che dice che serve il prezzo equo dei prodotti, che bisogna riflettere seriamente sul rapporto tra la terra e l’umanità, che apre tantissimi scenari. E che dice anche che non si può andare avanti su una politica in cui si continua a finanziare con risorse pubbliche i produttori e poi la grande distribuzione fa dei prezzi che li fanno saltare per aria. Nel giro di venti, trent’anni hanno chiuso tantissime aziende».
La Calabria, un luogo dove si parla di riscatto
L’ostello non sarà solo a disposizione dei braccianti. L’idea è che, nei mesi estivi, in cui gli appartamenti dovrebbero essere più vuoti, le associazioni non profit del territorio possano usare la struttura per il turismo solidale. «Ci stiamo lavorando» ci racconta Piobbichi. «Tutti gli appartamenti che avevamo sono pieni adesso. Ne stiamo aprendo dei nuovi per accogliere dei turisti solidali, e uno lo lasceremo per chi vuole venire qui a fare la filiera partecipata». Il discorso, infatti, è molto più ampio. Questo progetto non riguarda solo la dimensione del rapporto con i migranti, ma il rapporto con la società. «Per questo abbiamo costruito il Giardino della Memoria, gli interventi di rigenerazione eco-sociale, il Rosarno Film Festival, stiamo aprendo un gruppo d’acquisto che vuole aiutare i produttori locali ad avere uno sbocco alternativo» ci spiega Piobbichi. «Stiamo cercando di costruire un ragionamento sul riscatto. Non solo sul tema dei migranti, ma anche del riscatto della terra, di una popolazione e dei luoghi che per tanti anni sono stati incasellati da una forma di comunicazione che li ha sempre messi dentro un meccanismo. In realtà la Calabria è un luogo dove si parla di riscatto. È un territorio che vive le migrazioni dei giovani, un luogo di contraddizione. Ma io ho trovato molta facilità ad aprire un luogo come questo: non ho trovato gente che faceva la manifestazione davanti come in altre parti d’Italia, ma tranquillità. Lo dico sapendo che a Rosarno è successo quello che è successo. Ma se uno la gestisce in una certa maniera, lavorando sul tema dei diritti del territorio, la terra, la produzione, l’accoglienza, di un welfare senza la mediazione dello stato, si può fare». Dambe So è un progetto che è nato con il sostegno delle chiese evangeliche, ma l’idea è che si possa anche andare verso un meccanismo di sostenibilità economica. «Se riusciamo a fare un ragionamento sul tema di chi paga l’accoglienza, già ammontando a valle di un centesimo tutte le arance, mandarini e kiwi prodotti nella Piana, avremmo qualche milione d’euro» ragiona Piobbichi. «Che passerebbe alla filiera. E si potrebbe passare a una contrattazione di filiera. Ma chi dovrebbe farla? Una chiesa o qualcun altro?»
Dall’ospitalità al subaffitto e all’affitto autonomo
Dambe So nasce per ospitare i braccianti in modo temporaneo, ma la Federazione si occuperà anche di quei braccianti che decideranno di risiedere in modo stabile nella piana, aiutandoli con progetti personalizzati a trovare case in affitto. «I piani sono tutti occupati, perché ci sono braccianti che rimangono qua» ci racconta Piobbichi. «Alcuni vanno via un mese o due e poi tornano. Stiamo cercando di aprire una fase due, di passare dall’ospitalità al subaffitto, e poi all’affitto autonomo. Quattro persone, a 100 euro l’una, ce la possono fare. Il problema è che qui la maggior parte delle case non hanno l’agibilità, e quindi loro non possono rinnovare il permesso di soggiorno». Oggi l’ostello ospita circa 20 persone, ma in vista della prossima stagione si sta ampliando (grazie a un FAMI, con la Prefettura di Reggio Calabria e con finanziamenti di Fondazione Sud e di chiese estere) in modo da arrivare fino a circa 40 posti totali.
Questo modello è replicabile
A quasi un anno dall’apertura dell’ostello, chiediamo a Francesco Piobbichi di fare un primo bilancio. «È andata bene» ci risponde. «Quando abbiamo aperto lo abbiamo fatto quasi come una scommessa. Le cose semplici sono le più difficili da fare. Ma al tempo stesso, una volta che si parte, riesci a far capire che questo modello è replicabile. Noi non possiamo fare venti ostelli, ma se nei luoghi dove ci sono forze lavoro di questo tipo si sviluppano interventi di questo tipo, noi siamo a disposizione per far vedere come si fa. È importante l’esempio. Abbiamo avuto la fortuna di aver finanziamenti, ma questa cosa non l’abbiamo fatta per far vedere quanto siamo bravi, quanto piuttosto per far capire che si può fare, che possiamo smontare i ghetti». «La cosa che si dovrebbe fare», conclude, «è capire e paragonare quanto spende lo Stato per i ghetti, i campi container, e quante persone, invece, si potrebbero accogliere in dignità con un progetto come il nostro ».