DALLA NUVOLA DI FUKSAS UN PICCOLO LESSICO CONTRO IL RAZZISMO
Raccontare le migrazioni e le persone che le vivono per vincere la retorica dell’invasione. Se ne è discusso in un incontro di Più libri più liberi
13 Dicembre 2017
Con cifre da record, oltre 100mila presenze ed il tutto esaurito nella maggior parte degli incontri, si è conclusa domenica la sedicesima edizione di Più libri più liberi. Una manifestazione la cui regia, pur prestando particolare attenzione ai ragazzi, ha saputo essere accattivante con tutte le generazioni di lettori. I piccoli editori hanno la passione che mostrano nelle loro produzioni critiche e saggistiche, che meritano tutta l’attenzione riscossa in una kermesse a tratti entusiasmante.
Cosa raccontare di una domenica dentro la nuvola di Fuksas? Sono stata risucchiata nella sala Sirio da una discussione sul Ruolo dei mezzi di informazione nel racconto dell’immigrazione: piccolo lessico contro il razzismo. A parlarne, Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale e Giulio Piscitelli, fotografo italiano che da anni, con il suo lavoro, racconta il flusso migratorio. Ci hanno mostrato come, con le parole e le immagini, possiamo rompere la relazione di odio verso l’altro in cui siamo immersi. Siamo di fronte ad una ricostruzione culturale reazionaria attraverso le xenofobia, l’odio verso l’altro.
Parole e immagini senza un contesto di riferimento, ci hanno mostrato, possono essere usate per raccontare la relazione di aiuto o un’invasione. L’inchiesta della CNN sulla compravendita degli schiavi in Libia ha suscitato indignazione. L’uso delle parole come “schiavo” o “schiavismo” e le relative immagini hanno provocato manifestazioni in molti paesi, le cui popolazioni hanno chiesto di rompere i rapporti ufficiali con Tripoli.
Eppure in Italia, paese che ha un ruolo di primo piano negli accordi con la Libia, non c’è stata un’eco di quelle mobilitazioni. Il presidente Macron, al vertice dell’Unione africana, a seguito delle crude denunce, ha invocato l’intervento militare: quasi una scusa per giustificare nuove azioni di guerra.
Interessanti, da questo punto di vista, le riflessioni sul ruolo dei giornalisti che non dovrebbero mai dimenticare di chiedersi in cosa consiste il loro ruolo di testimoni, in modo da poter consapevolmente rompere quel circolo vizioso, rafforzato dai social media, per cui i giornali non fanno altro che riportare le frasi dei politici fuori dal contesto in cui sono pensate e pronunciate, ritagliando così un ruolo neutro, non critico e men che mai di rottura o di messa in discussione dei luoghi comuni, dei politici e/o della pubblica opinione.
ROMPERE LA RETORICA DOMINANTE. Forse si dovrebbero “ripoliticizzare le parole”, cioè non solo chiedersi se sia giusto parlare di migranti, richiedenti asilo o di rifugiati per attenersi ad un generico codice deontologico, ma avviare una costante riflessione sul contesto, dando, ad esempio, voce ai protagonisti, visto che spesso si parla di migranti senza la voce dei migranti. Anche con le foto si cade nello stesso errore se la foto non racconta una storia. Bisogna rompere, hanno detto, la narrazione dominante, la retorica degli sbarchi, che mostra sempre i migranti come masse indistinte. Noi conosciamo il fenomeno migratorio degli ultimi anni attraverso “le masse di persone stipate nei gommoni che rischiano la vita”, potere enorme nel nostro immaginario, e che “vengono salvati da angeli del mare”, che poi tanto angeli non sono, perché sono stati trasformati anche in trafficanti.
È chiara la riduzione della complessità del fenomeno migratorio, e soprattutto la riduzione delle persone a “puri corpi”. Guardare alla migrazione in maniera diversa può far passare una diversa informazione anche attraverso l’immagine. Quando si parla di campo profughi, ci viene sempre descritto come un luogo di disperazione e di abbandono, non che non lo sia, ma è anche un “non luogo” dove individui non sono cose senza una propria vita: si può raccontare la vita nei centri di accoglienza, ad esempio attraverso il sistema di scambi e commercio. Perché i campi hanno una loro economia, altrimenti come si fa a vivere per anni dentro un campo profughi? La normalità in un campo profughi con i migranti che transitano e stazionano per anni sono i bar, i negozi.
Questo è il modo per raccontare la crisi migratoria facendo emergere quel secondo livello che ti permette di raccontare: il campo profughi ha stabilizzato la crisi, l’ha fatta diventare normalità, perché tutti cerchiamo di ricreare una vita anche nella crisi. E che dire della narrazione dei soccorsi in mare col lessico dell’emergenza? Per fare contro informazione rispetto alla logica dell’invasione e dell’emergenza, i giornalisti hanno usato dati, numeri, per dimostrare che chi parlava di invasione non diceva la verità. In Italia lo scorso anno sono arrivati 180mila richiedenti asilo, e dunque, rispetto ai 60 milioni che siamo, non possiamo parlare di invasione, visto che negli ultimi 5 anni non c’è stato un aumento reale di arrivi.
NARRARE PERSONE E STORIE. I paesi che ospitano più migranti non sono quelli europei ma il Libano , la Giordania, che ha la percentuale più alta di profughi rispetto alla popolazione. Però i numeri, la logica, la ragione non bastano, in un discorso che de-umanizza l’altro, un fantasma … uno specchio. Immigrato come specchio è una figura usata dai sociologi, in quanto come ultimi hanno una funzione di capro espiatorio per giustificare la nostra crisi e mettono in luce le debolezze strutturali delle società ospitanti. Nel 2015 la rotta balcanica dei migranti ha messo in discussione il progetto europeo. Bisogna riacquistare la dimensione di complessità facendo parlare le persone che fanno il “grande viaggio”, il giornalista è un ponte che dà voce e lascia parlare. Per questo è importante l’uso delle parole.
In Italia l’accezione negativa data alla parola “migranti” si è costruita con gli appellativi aggiuntivi, per esempio “clandestino”: avendo in Italia il reato di clandestinità, i migranti vengono criminalizzati. Sono termini non appropriati che racchiudono in sè l’idea dell’altro, di qualcosa che fa paura e di cui non mi voglio occupare. Quando Papa Francesco cominciò ad usare la parola “migrante”, la stampa si è allineata ed all’improvviso tutti sono diventati migranti, anche i richiedenti asilo e i cittadini residenti nel nostro paese da anni, arrivando a legare lo ius soli alle questioni migratorie.
Al jazeera nel 2015 scoraggiava l’uso della parola “migrante” perché contiene in sè dei pericoli: i migranti potevano diventare una categoria ombrello che serviva a de-umanizzare le persone: noi e loro. Ed è quello che accade oggi: il migrante è un viaggiatore senza diritto di viaggio, perché ha un accesso al movimento negato. Come superarlo? Cercando di raccontare le storie delle persone. Nello sgombero delle persone in Piazza Indipendenza a Roma, ad esempio, nessuno sapeva che quelle persone occupavano lo stabile da oltre 10 anni, quasi tutti rifugiati politici, quasi tutti provenienti da un ex colonia italiana, l’Eritrea, che tutti parlavano italiano molto bene, che i loro nonni avevano frequentato la scuola italiana in Eritrea. Ed invece andrebbe raccontato perché gli eritrei sono rifugiati; cosa sta succedendo lì ora e quali sono state e sono ora le relazioni con il nostro paese. Una visione del fenomeno articolata e che merita di essere narrata in tutta la sua complessità.