PIZZAUT: COMUNICARE IL SOGNO È CONTAGIOSO

Con Nico Acampora, fondatore e presidente di PizzAut, per capire qual è la forza del suo progetto e come possa fare da volano ad altre realtà che, in tutta Italia, si occupano di autismo

di Maurizio Ermisino

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Una notte, all’una e mezza, Nico Acampora ha svegliato sua moglie e le ha detto: “Dobbiamo aprire un ristorante per persone autistiche”. “Nico, dormi che non sai cucinare neanche…” è stata la risposta. Nico Acampora racconta spesso questo aneddoto, insieme a tanti altri di quella che è una storia fuori dal comune. È il fondatore di PizzAut: oggi quel ristorante non solo esiste, ma sono due. E per andare a cena bisogna prenotare due mesi prima. PizzAut oggi dà lavoro a 41 ragazzi nello spettro dell’autismo con contratti a tempo indeterminato. I ragazzi formati da PizzAut lavorano anche in altri luoghi. Uno di loro è inserito in Autogrill, che ora ha lanciato una partnership con PizzAut e il panino GourmAut, che ha l’obiettivo di devolvere parte del ricavato a PizzAut e sostenere le attività a favore dell’associazione, tra cui il progetto PizzAutobus, che prevede la realizzazione di food truck in tutta Italia.  La visibilità che sta avendo PizzAut colpisce. Molte realtà che si occupano di autismo non hanno la stessa forza mediatica. Ma il successo di PizzAut può avere una ricaduta positiva? Di questo, e molto altro, abbiamo parlato con Nico Acampora. Che ci ha risposto con grande sincerità.

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Nico Acampora: «Abbiamo avuto sempre l’attenzione a comunicare non solo quello che facciamo, ma anche il sogno che si trasformava in realtà»

PizzAut ha avuto un’esplosione e una visibilità senza precedenti. Quanto è stato importante quel passaggio televisivo a Tu sì que vales?
«Non è stata una mia idea. Ero a casa mia, quando mi chiamò la redazione che ci aveva visto sui social, in alcuni video in cui andavamo nei ristoranti degli altri a fare un assaggio di PizzAut. Volevano invitarmi a un provino di Tu sì que vales. Io che sono ignorante, perché a casa mia si guardano solo cartoni animati – perché con un figlio con un autismo severo guardi quelli – dissi: “non so che cos’è”. Googlando vidi che era un talent e dissi: “guardi che non cantiamo, non balliamo io sono anche brutto”. L’autrice mi convinse con una frase: “secondo me una persona che fa quello che fai tu è una persona che vale”. Decidemmo di andare. Anche se, all’inizio, ci furono molte critiche: “porti l’autismo in prima serata”, “fai spettacolo”. Ma le critiche, per quanto grandi, furono meno degli apprezzamenti. Abbiamo fatto il picco di ascolti, quasi sei milioni di spettatori. È stato un buon inizio, ma non giustifica la comunicazione successiva. Mi dissero che in tre mesi tutti se ne sarebbero dimenticati. Ma noi abbiamo avuto sempre l’attenzione a comunicare non solo quello che facciamo, ma anche il sogno che si trasformava in realtà».

Avete attratto sponsor e sostenitori da quel momento?
«Molti sponsor nel senso classico, non donatori. In quel periodo cercavo ristoranti che mi ospitassero: non ne avevo uno mio e avevo bisogno di testare i ragazzi. Quella visibilità ha fatto sì che trovassi ristoranti con maggiore facilità. È stato utile per capire le criticità dei ragazzi al lavoro e cercare soluzioni e far conoscere la bontà del progetto e della pizza».

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«È stato tutto molto complesso: all’inizio non ci credevano tutti. Mi scrivevano: “Acampora, se lei pensa di riuscirci è più handicappato dei suoi ragazzi”»

Quanto è stato difficile arrivare ai ristoranti veri e propri?
«È stato tutto molto complesso: all’inizio non ci credevano tutti. Mi scrivevano: “Acampora, se lei pensa di riuscirci è più handicappato dei suoi ragazzi”. La banca mi disse: “il progetto è bellissimo ma non ve lo finanzieremo”. La neuropsichiatra mi disse: “Acampora, lei è il solito padre frustrato che fa progetti irrealizzabili”. Questa frase la ripeto spesso, è un grande stimolo per lavorare. Le difficoltà iniziali sono state molte, anche nella formazione dei ragazzi. E inventarsi quel tipo di tavolo, le luci più adatte, le insonorizzazioni più adatte, studiare i forni. Tutta una serie di errori, fatti nei ristoranti degli altri. A ogni errore non dormivo la notte per risolverlo».

La comunicazione è così azzeccata che sembra nata da qualche agenzia. Invece è tutto frutto della vostra creatività…
«Il logo l’ho inventato io nel 2017 e l’ho registrato alla camera di commercio, e così il claim “PizzAut: nutriamo l’inclusione”. La mia voce è una voce roca, di uno che parla troppo spesso e che non sa usarla, come mi dice Elio di Elio e le storie tese. I miei video sono tremendi. Una volta mi ha chiamato un’agenzia di comunicazione per dirmi “se vuole le diamo una mano perché i suoi video fanno schifo”. Credo, invece, che piacciano per questo, perché sono fatti in maniera spontanea, senza mai preparare nulla, in un momento in cui tutto è di plastica e preparato a tavolino: è tutto frutto di un papà che voleva cambiare la vita di suo figlio».

In Italia ci sono altre realtà che fanno lo stesso lavoro di PizzAut, anche con ottimi numeri, ma non hanno la stessa visibilità. Come mai? PizzAut può diventare un volano, un alleato per valorizzare le altre realtà?
«Io credo che PizzAut lo stia già facendo. Molte realtà stanno nascendo perché dicono “se ce l’ha fatta questo che non aveva agganci e non era nessuno, ce la possiamo fare anche noi. Perché siamo esattamente come lui, un papà e un gruppo di genitori”. PizzAut è questo. Molte realtà mi stanno scrivendo, da Trani, da Trapani, dall’Emilia. Molte realtà stanno nascendo sulla scia di PizzAut. La visibilità è straordinaria per questo, perché ci dice che si può fare».

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I ragazzi formati da PizzAut lavorano anche in altri luoghi. Uno di loro è inserito in Autogrill, che ora ha lanciato una partnership con PizzAut e il panino GourmAut

L’idea dei PizzAutobus potrebbe essere una delle vie per valorizzare altre realtà in Italia?
«L’abbiamo progettata e stiamo iniziando a farla. Una flotta di PizzAutobus, dei veri e propri truck food. L’idea è di farne 107, uno ogni per provincia in Italia. Partiamo dalla Lombardia, in cui ci sono 12 province e vogliamo fare 15 truck food, perché Milano è divisa in 4 zone. Vogliamo partire dalla Lombardia, mettere a terra il sistema, verificarne le criticità, e poi uscire verso tutta Italia. Abbiamo adesioni da tutta Italia. Va messo in piedi un modello non solo sociale e di formazione dei ragazzi, ma un modello di business. La differenza di PizzAut è che i ragazzi stanno molto bene, molto meglio, i clienti stanno bene perché la pizza è buona. C’è un’articolazione progettuale che di solito, purtroppo, al Terzo Settore manca, perché si occupa molto del percorso e poco del risultato. Noi facciamo un ristorante che deve stare in piedi, e lo fa solo con un ottimo prodotto».

Per stilare il modello di business dei suoi ristoranti è stato aiutato?
«Sono un ragazzo curioso. Prima di aprire il ristorante ho letto molti libri, ho visitato molti ristoranti. A 18 anni avevo paura di non farcela a fare la patente. Ma ho detto: “tutti ce l’hanno, posso fare anch’io”.  E così mi sono guardato intorno e ho detto: ci sono migliaia di ristoranti, se mi impegno ce la posso fare anch’io. La differenza è la questione legata all’autismo: ho dovuto inventarmi tutto. Per il resto è stato sufficiente copiare con intelligenza».

C’è un passaggio dell’Eneide in cui Enea è scoraggiato, ma non può farlo vedere alla truppa. Nico Acampora si è mai sentito sfiduciato senza farlo vedere per il bene dei suoi ragazzi?
«Me ne ricordo decine di questi momenti. Alcuni sono legati alla parte economico-commerciale: quando mancano i soldi, quando cominci a fare dei debiti, a mettere il tuo patrimonio. Altri hanno a che fare con una parte più umana: ho un senso di colpa enorme per aver trascurato la mia famiglia. Sento un senso di fallimento quando non ce la faccio a formare tutti i miei ragazzi, perché mi arrivano centinaia di richieste e non posso accoglierle tutte. E anche quando le accolgo, non sempre il percorso formativo va a buon fine. Sento l’inadeguatezza. Sono padre di un bambino a cui sono stati detti molti no. Cerco di condividere con chi mi è vicino anche questi aspetti. A Superman non ci credo: cerco di condividere la sofferenza in modo tale che, quando altri la vivono, possano farlo con te. La forza non deriva dalla mancanza di debolezza, ma dalla capacità di affrontare quelle debolezze».

Immagini dalla pagina FB di PizzAut

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