
PORTINERIE DI COMUNITÀ: LUOGHI FISICI E IDEALI PER CURARE LE RELAZIONI UMANE
Da Torino le Portinerie di comunità® sono diventate un social franchising nazionale: a partire dai bisogni delle comunità trovano la risposta più adatta, ogni volta in modo diverso. Damasco: «La Portineria di comunità è un luogo dove si torna a pensare che la co-progettazione con gli abitanti debba essere costante»
19 Febbraio 2025
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«Senza un processo di cura delle relazioni umane, anche la rigenerazione urbana rischia di essere un puro esercizio di stile». È una frase di Chiara Saraceno, presidente della Rete Italiana di Cultura Popolare. È perfetta per raccontare il senso delle Portinerie di comunità®, luoghi fisici di incontri e collaborazioni individuali e inter-istituzionali, spazi pubblici in cui si costruiscono cooperativamente forme di socialità e si risponde ai bisogni che emergono. L’esperienza delle Portinerie di comunità®, nate a Torino e diventate un social franchising nazionale (e un marchio registrato) è raccontata in un libro, Ci prendiamo cura delle comunità, edito dalla Rete Italiana di Cultura Popolare. Ne abbiamo parlato con Antonio Damasco, Direttore della Rete.
Rigenerare le relazioni
Non solo rigenerazione urbana, dunque. Ma anche relazioni umane. «Siamo nell’epoca del PNRR» ci spiega Damasco. «Che è stato pensato molto per le strutture, gli edifici e le piazze. Si è pensato all’involucro, ma non al contenuto delle comunità: le persone. Bisogna rigenerare intanto le relazioni, sfilacciate e distrutte». C’è allora bisogno di tempo, alleanze e processi di attivazione di comunità e di ascolto reciproco, che valorizzino i saperi e i punti di vista di ciascuno e allo stesso tempo costruiscano processi di conoscenza comuni, documentabili e trasmissibili. È da questa consapevolezza che la Rete Italiana di Cultura Popolare ha sviluppato il proprio metodo e strumenti di lavoro nel dare vita alle Portinerie di comunità®. «La Portineria di comunità non è una portineria di quartiere, non è un maggiordomo di quartiere, non è un luogo di servizi, è un luogo dove si torna a pensare che la co-progettazione con gli abitanti debba essere costante» ci spiega il Direttore. «Una Portineria di Comunità nel 2020 e una di oggi sono completamente diverse».

Ritiro dei pacchi, bistrot, uncinetto e origami
Le Portinerie di comunità® sono uno spazio fisico ma anche ideale. Uno spazio che, ogni volta, viene riempito dei contenuti di cui ha bisogno quella comunità. «Ogni portineria ha la sua comunità e ha i suoi bisogni, che non sono corrisposti da altri» ci racconta Damasco. «A Porta Palazzo, Torino, arrivano oltre 400 pacchi al mese. A Borgo San Paolo, sempre a Torino, non arriva un pacco, ma abbiamo un piccolo bistrot dove le persone vengono a mangiare per non stare da sole. Lì c’è un tema di socialità: ci sono 32mila abitanti, non c’è un teatro, una biblioteca mancava uno spazio in cui incontrarsi. In montagna, a Pont Canavese, sta succedendo tutt’altro: donne che non si incontravano mai hanno deciso di trovarsi per fare l’uncinetto o l’origami».
L’Intelligenza Artificiale per intercettare fragilità
Ma qual è il processo per dare vita a una di queste Portinerie? «Facciamo una mappatura iniziale con tutta l’infrastruttura sociale: chi sta lavorando, come e con chi» ci illustra il Direttore. «Con una grande alleanza con tutti gli enti, pubblici e privati. Utilizziamo una piattaforma, il Portale dei Saperi, con un’Intelligenza Artificiale che ci permette di mettere insieme domanda e offerta, bisogni e competenza». «L’idea è che quello sia un luogo di partecipazione dove vai veramente a chiamare chi ne ha bisogno» continua. «Oggi si parla di partecipazione ma ti ritrovi in questi gruppi dove siamo tutti bianchi, caucasici e con la pancia piena. Chi avrebbe veramente bisogno di fare processi di partecipazioni non c’è: è con i figli, deve lavorare, ha una mamma malata, viene da un background migratorio e non capisce la lingua. Quella piattaforma ci sta consentendo di arrivare a intercettare fragilità in una comunità che sfuggono anche alle politiche sociali».
Portinerie nei centri per minori stranieri non accompagnati
Le Portinerie di comunità sono tutte diverse, non c’è un solo modo di farle. È un’idea che si declina in modo diverso a seconda delle comunità stesse. «A Palermo stiamo per andare a fare Portinerie di comunità nei centri di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati» racconta Damasco. «C’è una certa retorica che vede questi ragazzi come un problema, ma va capito che hanno risorse e competenze. Che arrivino dall’Africa per riallacciare le relazioni nello ZEN di Palermo è una bella partita da giocare».

Luoghi a bassa soglia gratuiti
Cerchiamo di capire come funzionino le dinamiche nelle Portinerie di comunità. «C’è un lavoro iniziale, che ha bisogno di fondi, per fare la ricerca e implementazione» approfondisce Antonio Damasco. «Devi creare un’infrastruttura sociale, nei primi tre mesi di lavoro. Il nostro operatore può stare in Portineria mezza giornata alla settimana: il resto è occupato da associazioni, cooperative. Ci sono anche l’INPS e i centri per l’impiego. L’alleanza con il pubblico deve essere molto forte. Ci sono tutta una serie di soggetti che tornano a pensare che abbiamo bisogno di luoghi a bassa soglia gratuiti e di inciampo. Cosa che non abbiamo più nei nostri quartieri. Oggi una signora somala che ha bisogno di un documento deve sbattere la testa per capire cosa fare».
Antropologi, sociologi, urbanisti
Ma che tipo di competenze ha chi si occupa di Portinerie di comunità? «Ci sono antropologi, sociologi, urbanisti» spiega Damasco. «Chiara Saraceno, quattro anni fa, ha creato una scuola sull’attivazione di comunità in cui, una volta all’anno, per una settimana, vengono tutti a studiare questa tipologia e poi provano a rimettere in campo le cose. Chi dirige una Portineria deve avere una grande capacità di mettere insieme sia la parte di animazione ed empatia sul territorio, sia un controllo dei dati». Chi lavora nelle Portinerie è contrattualizzato e pagato. Ma poi ci sono molte associazioni, cooperative, o enti pubblici, che decidono di stare in Portineria e donano il loro tempo. Gli enti pubblici partecipano quasi sempre mettendo lo spazio e le utenze. «Attraverso un patto sui beni comuni, si fa un processo di co-progettazione con tutti quelli che vogliono stare all’interno» spiega il Direttore. «E si capisce se ci sono risorse, economiche o di tempo. C’è una parte di volontariato e una parte di soggetti che percepiscono del denaro per farlo». Attualmente in Italia ci sono una ventina di esperienze, tra Lombardia, Piemonte, Sicilia, Sardegna e Puglia. Dal Lazio sono arrivate alcune richieste, due o tre, ma non è ancora partito niente. Sarebbe interessante capire come l’esperienza delle Portinerie di comunità possa essere declinata anche in questa regione.
