PROCESSO PER STUPRO: AL TEATRO ELISEO PER RACCONTARE LE DONNE
Renato Chiocca porta in teatro un testo dal documentario del 1979 su un processo per stupro a Latina. E ne fa una riflessione sui diritti delle donne
16 Marzo 2018
Nel 1978, a Latina, andò in scena un processo penale: quattro uomini erano stati accusati di aver violentato una ragazza per un pomeriggio intero in una villa, dove uno di loro l’aveva condotta con la promessa di darle un lavoro. Nel dibattimento, oltre alla vittima e agli imputati, i protagonisti sono gli avvocati della difesa, in particolare Giorgio Zeppieri, e l’avvocato della ragazza (costituitasi parte civile per un risarcimento simbolico), una donna di cui avremmo sentito parlare: Tina Lagostena Bassi. Quel processo è diventato un documentario, Un processo per stupro, andato in onda l’anno seguente.
Le parole di quel dibattimento sono un documento unico, le richieste della Lagostena Bassi per dare finalmente una dignità alle donne, e le giustificazioni e le minimizzazioni della difesa sono parole che risultano attuali ancora oggi. Oggi Processo per stupro è diventato uno spettacolo teatrale di Renato Chiocca, in scena al Teatro Eliseo Off (venerdì e sabato alle 22.30, domenica e lunedì alle 20, fino al 26 marzo). Chiocca sceglie di “astrarre” le vicende da quel 1978, di spogliare la scena il più possibile per rendere il testo di quel processo qualcosa di paradigmatico, di universale. E, nel momento in cui la condizione delle donne nella nostra società è tornata alla ribalta con gli scandali nel mondo dello spettacolo, quelle parole suonano tremendamente attuali.
Processo per stupro vuole essere un’occasione per reinventare in teatro il linguaggio di un processo penale di quarant’anni fa e far rivivere al pubblico di oggi lo scandalo, l’indignazione e la presa di coscienza civile di quello che fino ad allora era “un processo per stupro”. Un progetto in cui il linguaggio della realtà raccontato attraverso la televisione ritorna al pubblico grazie alla presenza del teatro, in cui la parola asciutta ritrova la sua straniante potenza comunicativa, la sua emozione, la sua urgenza. Di tutto questo abbiamo parlato con l’autore e regista Renato Chiocca. Il suo è uno spettacolo da vedere per riconsiderare le nostre convinzioni, e quelle della collettività. Per chiederci: ma oggi, siamo ancora nel 1978? O è cambiato qualcosa?
Processo per stupro è uno spettacolo che nasce da un’urgenza, e arriva in un momento storico ben preciso. Qual è il senso di portare un documento simile a teatro in questi anni?
È opportuno dire in questi anni: la prima idea è nata due anni fa, in occasione di un incontro al Centro Donna Lilith di Latina con la regista Loredana Dordi per la proiezione del documentario Un processo per stupro. Vidi per la prima volta il documentario non con lei, ma cercando di recuperarlo, e mi sono reso conto di aver visto in ritardo qualcosa che è stato molto importante per l’opinione pubblica italiana, sia dal punto di vista dei diritti delle donne, sia dal punto di vista della giurisprudenza, sia da quello della comunicazione di massa legata ai linguaggi della legge. Ho capito di essere stato talmente impressionato dalla fattura del lavoro, dall’universalità del documento, delle voci, delle parole dei protagonisti, e anche della sintomaticità della vicenda – non era un caso efferato ed eccezionale come quello del Circeo, ma dalle dinamiche che potevano essere declinate ad altri casi analoghi – tanto da voler provare a spogliare quelle parole del documento storico e cercare di attualizzarle attraverso la presenza del teatro. È un’idea che è nata appena ho sentito le parole di Tina Lagostena Bassi e di Giorgio Zeppieri. Il progetto presentato al Teatro Eliseo ha riscontrato una opportunità contemporanea che ha consentito di attivare la produzione.
Nel frattempo ci sono state le denunce a Weinstein, le prime denunce per molestie nel mondo dello spettacolo in Italia, e sono nati i movimenti per combattere tutto questo…
Facendo un lavoro legato alla realtà, la sorpresa è quella di entrare sempre di più nella verità dei fatti, di imbattersi nelle persone che li hanno determinati, e di scoprire più approfonditamente sia le cause che gli effetti di quegli avvenimenti. Io ho scoperto, parlando con degli avvocati, che nel 1978, anno in cui sono avvenuti i fatti del documentario, la violenza carnale aveva ancora la classificazione di reato contro la morale pubblica. Solo nel 1996 la legge italiana l’ha classificata come reato contro la persona, implementando quindi anche le relative pene. La sorpresa e la constatazione di queste condanne memorabili – il punto era creare giustizia, far sì che ci fossero quelle condanne in quel momento – mi hanno dato l’opportunità di approfondire la materia. E ho scoperto anche che, se anche una volta tanto la legge in Italia dal ‘78 al ‘96 è andata avanti, grazie alle lotte per i diritti delle donne, forse l’opinione pubblica, i movimenti mediatici, anche l’impostazione di molte difese in processi per violenza appartengono ancora a un tempo arretrato rispetto alla legge. E sembra che gli italiani non siano ancora al passo. E potrebbero ancora aver bisogno di ascoltare queste parole.
In questo senso, quanto siamo andati avanti, e dove siamo oggi, rispetto a quel 1978 che sembrava il Medioevo?
Forse siamo andati avanti dal punto di vista giuridico. Quello che poi effettivamente consente alla legge di essere applicata è la sua interpretazione, che avviene in fase processuale e non in fase mediatica. Credo che l’interpretazione, in maniera spesso opportunistica, venga ancora dirottata verso dei canoni che sono palesemente invecchiati. Il teatro però, come il cinema e la letteratura, può diventare un terreno di interpretazione parallelo, può diventare la sede dell’interpretazione della legge dal punto di vista emotivo. Credo che possa aiutare a schiarire un po’ lo sguardo e l’ascolto, staccandolo da questa confusione mediatica, che spesso è volutamente strumentale.
Il teatro spesso nasce da un testo letterario. Qui si parte da un documento reale, talmente universale che sembra scritto da un commediografo. Come vi siete approcciati a questo aspetto?
È la natura creativa del progetto teatrale Processo per stupro. Credo che uno spettacolo teatrale sia fatto fondamentalmente di scrittura scenica: la drammaturgia ha a che fare con la resa finale dello spettacolo. Oggi, nell’era della comunicazione di massa, credo che possa essere definito come “testo” non soltanto un testo scritto, ma anche un testo filmico o un testo orale. Abbiamo considerato il documentario Processo per stupro come una fonte originaria, analogamente a quella che potrebbe essere stata quella legata agli atti del processo: una fonte documentaria da cui attingere per un ulteriore riscrittura, che ha a che fare con la scena. Se, da un lato, c’è stato un rispetto filologico delle parole, che una volta in teatro diventano suono e azione scenica, dall’altro, in questa trasposizione, ci siamo presi grande libertà. Gli attori portano naturalmente la loro voce, il loro corpo, il loro vissuto. E la scelta di scarnificare, spogliare la scena da ulteriori riferimenti realistici, ha l’obiettivo di restituire l’universalità e la paradigmaticità della storia. Ho considerato quelle parole un testo di partenza per la messa in scena, cercando di costruire, attraverso l’evocazione e lo svuotamento della scena, una realtà tutta teatrale che potesse risuonare con la realtà esterna. Di restituire l’importanza a quelle parole, che all’interno di un documentario sembrano totalmente legate a quella realtà. La sfida di questo spettacolo è una fiducia così grande in quelle parole: nella loro potenza e nella loro simbolicità hanno una loro forza che lo spettacolo si prefigge di utilizzare per offrire una versione straniante, una provocazione allo spettatore.
Gli attori hanno visto il documentario, si sono rifatti alle interpretazioni reali, non l’hanno visto, l’hanno visto e poi lasciato da parte per cercare una loro via ai personaggi?
Personalmente ho scritto un adattamento che prendesse i tratti dal processo, in forma integrale, ma estraendo delle parti. È vero che c’era il documento, ed era importante che tutti gli attori entrassero nel processo creativo, e nella conoscenza di quella fonte originaria, ma, nel lavoro di messa in scena, siamo partiti non tanto dal documentario, quanto dal testo adattato: ci si è staccati dal riferimento antropologico e reale delle persone per costruire dei personaggi partendo dai testi ricavati dalle loro storie.
Come hanno reagito gli attori a questo testo?
Naturalmente gli attori hanno trovato delle sorprese. Nella costruzione di un personaggio abbiamo messo alla prova l’universalità di queste parole. Gli attori hanno compreso immediatamente i profili dei personaggi, trovando dentro di loro i lati più virtuosi e anche quelli più oscuri. C’è stata un’adesione totale a quelle parole, creativa e performativa, che è morale proprio nella sua dialettica e nel suo conflitto. Che in fondo è quello che il teatro può offrire: far crescere ancora di più delle domande nei confronti dello spettatore. I riscontri più belli sono quelli che gli attori stanno avendo in tempo reale dal pubblico, in un’immersione tale che rafforza il momento scenico.
A che punto siamo oggi in Italia, cosa c’è ancora da fare?
Io credo che ognuno abbia il suo lavoro. Credo che i centri antiviolenza e le associazioni che offrono servizi di assistenza alle donne siano necessari, come rete di servizi complementare a quelli che la legge può offrire, anche se è la legge che deve tutelare questo genere di abuso. Credo che i centri debbano offrire empatia e servizi a chi da solo non riuscirebbe a difendersi, perché in questo la comunità rafforza. Dal punto di vista di chi, come me, sceglie di affrontare un tema così forte, credo che la differenza sia nel metodo, nel non cadere in trappole retoriche e nello sperimentare sempre forme che possano contribuire a creare dei dubbi nei confronti della percezione della realtà delle persone. Non dire al pubblico come comportarsi, ma instillare un dubbio.
Foto di copertina di Federica Di Benedetto.