ALUNNI STRANIERI, TRA EMERGENZA E STABILIZZAZIONE
Per il Rapporto Miur Ismu 2015 gli studenti stranieri cambieranno la faccia della scuola italiana. Intervista con Fiorella Farinelli
15 Giugno 2016
Presentato ieri a Roma, il Rapporto Miur Ismu 2015 “Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multiculturale nei contesti locali” (qui il Rapporto completo, qui la sintesi dei dati) racconta un’immigrazione fatta di 5 milioni di regolari, di nati in Italia in aumento, del quadruplicarsi degli iscritti nella scuola secondaria di secondo grado.
Un’immigrazione lontana dalle rappresentazioni mediatiche dei barconi e dell’emergenza. Racconta la stabilizzazione di un fenomeno, ma anche l’aumento dei minori non accompagnati, la grande eterogeneità delle provenienze, i ritardi e le bocciature, la presenza straniera tra i Neet più forte di quella italiana. Chiaroscuri di un fenomeno complesso, che proprio complessità richiede alla scuola, chiamata ad avere competenze tecniche, didattiche, organizzative ed una capacità di accoglienza consapevole. Una scuola che resta l’unico luogo istituzionale di inclusione in un Paese che, da questo punto di vista, resta indietro. Ne abbiamo parlato con Fiorella Farinelli (Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri e per l’Intercultura, Miur). Un fenomeno che invoca un’alleanza tra scuola, enti locali ed associazionismo che si rivela decisiva, ancor di più laddove lo Stato abdica ai suoi doveri di inclusione.
Nell’anno scolastico 2014/2015 gli stranieri nati in Italia sono il 55,3% della popolazione scolastica complessiva. Nella scuola dell’infanzia quasi l’85% dei bambini figli di immigrati sono nati in Italia. Numeri che confermano come la presenza degli alunni stranieri nella scuola italiana sia ormai strutturale.
«I bambini con un background migratorio a scuola sono una realtà solida da tempo, tant’è che adesso si è sfiorata la quota 800mila. Dati clamorosi che raccontano una storia dell’immigrazione diversa dallo storytelling che va per la maggiore e che dell’immigrazione vede solo i barconi e l’ultima fase che stiamo vivendo, quella dell’emergenza. Noi che ci occupiamo della questione da anni abbiamo sempre contestato l’idea che si potesse interpretare la realtà degli studenti stranieri a scuola come l’effetto di una situazione di emergenza, da cui derivano, naturalmente, delle politiche. Perché questo è il punto: dall’aver considerato questo come un fenomeno, non dico passeggero ma comunque non destinato a cambiare la faccia della scuola italiana, sono derivate politiche deboli. Parliamo di un 9,2% sul totale degli studenti, che in alcune situazioni significa molto di più, anche tre volte di più».
Mentre calano le iscrizioni degli italiani nelle scuole di tutti gli ordini, nella secondaria di secondo grado gli studenti stranieri nati nel nostro Paese sono quadruplicati, passando da poco più di 8mila unità del 2007/2008 alle quasi 35mila del 2014/2015.
«L’accesso ai gradi superiori dell’istruzione nel caso degli stranieri è legato a due fenomeni: la crescita del volume complessivo dell’immigrazione e il fatto – più interessante – che solo quando l’immigrazione si stabilizza davvero, fa impresa, entra nel lavoro dipendente, compra casa – e ormai soprattutto al Nord c’è gran parte dell’immigrazione vive questo tipo di situazione – allora investe anche sui figli, affinchè abbiano chance di inserimento sociale e professionale diverse dai loro genitori. Un fenomeno, quindi, figlio della stabilizzazione: non si investe sui figli e sulla loro scolarizzazione superiore se non si pensa di restare in Italia, di non aver bisogno che entrino subito nel mondo del lavoro per un’integrazione di reddito o se si pensa che i figli abbiano così tanti problemi di inserimento da non reggere la prova della scuola superiore. Ora si ritiene di avere abbastanza risorse, che i figli possano farcela, che possano non lavorare a 14 anni. Gli studenti stranieri sono, però, di più nei percorsi secondari triennali – l’istruzione e formazione professionale – di quanti non siano nei licei e negli istituti tecnici. Superiori sì, quindi, ma più brevi, e con una qualifica subito spendibile nel mondo del lavoro. Un trend positivo che racconta una storia dell’immigrazione diversa da quella raccontata dai media: parliamo di 5 milioni di immigrati regolarmente censiti, in situazione di regolarità, che lavorano, sono inseriti e mandano i figli a scuola. Ragazzi, questi, che hanno una fiducia nell’istruzione e nei suoi effetti sociali molto più alta degli italiani».
Le seconde generazioni e l’aumento dei minori non accompagnati. La stabilizzazione migratoria e l’eterogeneità delle provenienze. Quali sono e come cambiano le questioni che questi aspetti del fenomeno pongono alla scuola? E quali le difficoltà per i ragazzi?
«Una parte dell’immigrazione stabilizzata è rappresentata dai ricongiungimenti: i ragazzi che è più difficile inserire a scuola sono proprio i ricongiunti, a parte i minori non accompagnati, che presentano le criticità maggiori, ma sono fenomeno ancora circoscritto, anche se destinato ad aumentare.
I ricongiunti sono spesso adolescenti, sradicati, cresciuti nei paesi d’origine con i nonni, che rifiutano di essere definiti immigrati perché non hanno vissuto la migrazione, ma sono stati richiamati quando i genitori si sono stabilizzati. Hanno un’altra lingua e, per età, entrano in molti nella scuola media o nella secondaria superiore, dove la conoscenza della lingua – quella per lo studio, diversa da quella comunicativa – è fondamentale. La scuola deve, quindi, attrezzarsi sia dal punto di vista dell’apprendimento linguistico, che rispetto ad una accoglienza che deve essere consapevole di questo vissuto. Ora, dal Rapporto emerge che il numero dei ricongiunti sta diminuendo, ma quando, a mio parere, arriveranno in forze i minori non accompagnati, si dovrà affrontare una situazione di gran difficoltà rispetto a tutti coloro che entreranno da grandi per la prima volta nel sistema scolastico italiano. Quindi i ragazzi con più difficoltà sono i nati in un paese estero mentre i coetanei nati in Italia (il famoso 55,3%) hanno un ritardo scolastico minore, che resta a livelli molto alti, ma comunque minore. Questo, unito al fatto che il numero dei nati nel nostro Paese sta crescendo, ha portato molti osservatori poco attenti, purtroppo anche nella politica, a ritenere che non ci sia alcun problema da affrontare: mentre prima c’era l’idea che tutto era emergenza, ora inizia a farsi strada il pregiudizio opposto, che non c’è più un problema. In realtà basterebbe pensare alla scuola per l’infanzia: un bambino che non la frequenta, seppur nato in Italia, può essere cresciuto parlando la sola lingua d’origine. Arriva così alle elementari, dove si dà per scontata la lingua parlata, e si trova in difficoltà. Ci sono dati che confermano, infatti, che solo nel 30,8% dei nuclei familiari con bambini fino a 6 anni si parla anche italiano. Non è quindi vero che la nascita in Italia elimini in automatico il problema. Di fronte a questa situazione strutturale la scuola deve avere capacità tecniche, didattiche, organizzative. Non solo di buoni sentimenti, che finiscono con la scuola elementare. D’altro canto, se non ci fossero gli stranieri, ci sarebbero decine di migliaia di classi in meno. Mi piace ricordarlo agli insegnanti con cui mi capita di parlare, perché senza gli stranieri in molti potrebbero non avere un posto di lavoro».
Il Rapporto Miur Ismu 2015 intende essere strumento per promuovere una integrazione sempre più mirata. Accanto a questo, in Italia le scuole a maggioranza straniera sono circa tremila e l’incidenza straniera tra i Neet è più alta. Cosa fa e cosa dovrebbe fare la scuola per una integrazione concreta?
«Il 34% di ragazzi stranieri non prende un diploma. Questo succede anche agli italiani, ma la media scende al 16%. I tassi di ritardo e di bocciatura sono altissimi, molto minori tra i nati in Italia, ma comunque altissimi (siamo oltre il 13% di ritardo già in prima elementare). La legge italiana stabilisce che i ragazzi devono essere inseriti nella classe corrispondente alla loro età, ma spesso sono inseriti in quella precedente, accumulando ritardo già solo per le difficoltà linguistiche. Se poi mancano professionisti in grado di insegnar loro l’italiano e un’organizzazione scolastica aperta a laboratori, ai ritardi si accumulano le bocciature. Il 66,3% dei diciassettenni ha già un ritardo di uno, due o addirittura tre anni, fattore scoraggiante e demotivante per il ragazzo, inserito in un contesto non di coetanei. Però, siccome per i nati in Italia, questi fenomeni sono meno acuti, si pensa che il problema si risolverà da solo. Intanto il 34% non arriva al diploma, con un danno non solo della persona, ma del paese intero. Cosa deve fare la scuola? La scuola dovrebbe fare tante cose. Lla questione dell’italiano è decisiva e il suo insegnamento non è una banalità: in gran parte della scuola italiana – elementari a parte – anche agli italiani non si insegna la lingua, ma la letteratura. Occorre un professionismo nelle scuole che ancora non c’è. In molte primarie si fanno miracoli, ma non è detto che, andando avanti, quei miracoli bastino, occorre un lavoro successivo su cui come paese siamo molto indietro. Prima abbiamo pensato all’immigrazione come ad un’emergenza e ai migranti come gente di passaggio, ora pensiamo che nascano tutti qui. Prima o poi dovremo deciderci ad affrontare seriamente il problema».
Il Rapporto invoca una alleanza con associazionismo e terzo settore. Quanto c’è ancora da costruire in questo senso?
«Si tratta di una strada essenziale. Intanto rispetto agli adulti perché gran parte del lavoro su di loro per l’insegnamento dell’italiano e l’avvio a percorsi di formazione professionale lo fa l’associazionismo. Quindi l’alleanza tra Centri provinciali per l’istruzione degli adulti e l’associazionismo – nel caso romano, Scuolemigranti – è molto importante.
Anche se bisogna lavorarci su ancora molto. Ma un’alleanza c’è anche rispetto ai bambini. Pensiamo ad un bambino ricongiunto che arrivi in Italia a Marzo: ci saranno scuole che, contro la legge, rimanderanno la sua iscrizione a Settembre. Nel frattempo questo ragazzino cosa farà? Nei posti civili – in Italia, Bologna – c’è un’alleanza tra associazionismo, scuola e questura per l’organizzazione di attività estive che aiutino il bambino ad arrivare a scuola a Settembre conoscendo un po’ di italiano. Perché il preside che rimanda l’iscrizione a Settembre non ha pensato ad un’attività che aiuti il bambino ad inserirsi? Chi ci deve pensare? In questo modo lo Stato viene meno a propri compiti importanti e non vengono fatte cose che si potrebbero fare. Se non c’è un’associazione che cerca di inserire il bambino magari in un corso all’interno della scuola stessa il problema viene solo rimandato a Settembre. E così emerge che il nord leghista è quello che garantisce di più in termini di formazione professionale, inclusione, orientamento. Perché il problema non è la politica, ma le amministrazioni e il loro buon funzionamento e quando, poi, escono le statistiche sui più alti livelli di integrazione nel nostro paese, viene fuori Treviso, dove i bambini frequentano di più il nido e la materna».
Quale la situazione nel Lazio?
«Secondo il Rapporto Miur Ismu 2015 Lazio si colloca in una posizione intermedia. La presenza di stranieri è importante sia per l’attrattiva di Roma, sia per la presenza straniera nelle zone agricole, ad esempio, di Latina o Fondi. Emerge che nel Lazio anche gli stranieri frequentano i licei – caratteristica questa che è figlia della cultura sociale del territorio – più che in Lombardia, dove le scuole tecniche non sono considerate di secondo livello, come accade a Roma, perché storicamente hanno prodotto quadri della piccola e grande azienda, ma anche politici. Dato che emerge con forza è la debolezza laziale e romana nella capacità di fare rete tra scuole, enti locali e associazionismo, più spiccata nel Centro e nel Nord ovest. Qui la realtà è più slabbrata, tutto fa meno sistema».