REDDITO DI INCLUSIONE, UN PASSO AVANTI O UN GIOCO DELLE TRE CARTE?
Si approva la legge delega povertà, ma si tagliano i fondi sociali. Si lancia una misura strutturale, ma si colpiscono servizi già disomogenei. Ora tocca ai decreti
14 Marzo 2017
Il disegno di legge delega sulla povertà, approvato in via definitiva in Senato il 9 marzo scorso, sancisce il passaggio dal Sia, l’attuale sostegno per l’inclusione attiva, al nuovo Rei, il Reddito di inclusione, che nelle direttive generali della delega è una misura strutturale contro la povertà, valida, quindi, a livello nazionale e articolata in una parte economica e in una componente di servizi alla persona.
Ne beneficeranno circa 400 mila nuclei familiari con minori a carico, con la previsione di un aumento della parte economica (dagli attuali 400 euro mensili del Sia ai 480 euro del Reddito di inclusione) e dei beneficiari (primi tra tutti i nuclei familiari con figli minori o con disabilità grave, donne in gravidanza, disoccupati di più di 55 anni). Una misura – subordinata alla prova dei mezzi e all’adesione ad un progetto personalizzato di inclusione sociale e lavorativa che consenta di uscire dalle spire della povertà – per la prima volta affiancata ad un disegno legislativo organico, un Piano nazionale contro la povertà.
Ora il Governo ha sei mesi di tempo per emanare i decreti attuativi, necessari a dar vita al Reddito di inclusione, ma anche a riordinare le prestazioni assistenziali di contrasto alla povertà e rafforzare e coordinare i servizi sociali, in modo da garantire livelli essenziali omogenei in tutta Italia. Un passo storico per Giuliano Poletti, ministro del Lavoro e delle Politiche sociali: «per la prima volta», ha affermato nei giorni scorsi, «il nostro Paese si dota di uno strumento nazionale e strutturale di contrasto alla povertà che ci consente di introdurre progressivamente una misura universale fondata sull’esistenza di una condizione di bisogno economico e non più sull’appartenenza a particolari categorie».
Un nuovo approccio alle politiche sociali per il Ministro – la cui intenzione sarebbe quella di sintetizzare in un unico decreto legislativo tutti i provvedimenti attuativi della legge – fondato « sul vincolo di affiancare al sussidio economico misure di accompagnamento capaci di promuovere il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro di coloro che ne sono esclusi».
Per il reddito di inclusione servono risorse e servizi coordinati
Un risultato importante anche per volontariato e terzo settore. Importante, ma anche carico di punti interrogativi: dall’allargamento della platea dei beneficiari – che vuol dire risorse – alla sostenibilità territoriale e dei servizi. Ne sono convinti l’Alleanza contro la povertà, secondo cui «l’obiettivo resta l’effettiva universalità della prestazione, dentro una strategia di rafforzamento del sistema dei servizi», così come Francesco Marsico, di Caritas Italiana, secondo il quale, tuttavia, «al momento non ci sono le risorse sufficienti per questa misura che rischia di essere solo una misura categoriale, cioè solo per le famiglie con figli. Se le risorse saranno adeguate questo sarà il modo per cambiare la politica dei servizi del nostro Paese e lottare effettivamente contro la povertà assoluta in Italia».
Insomma, la buona volontà c’è, ma per essere operativa la legge delega ha bisogno di risorse economiche, di servizi funzionanti e coordinati in tutto lo stivale, che garantiscano livelli di assistenza uguali per tutti, e di progetti di inclusione attiva che non restino tali.
Quello che, per il Paese, è per molti un appuntamento con la storia, ha tratti di schizofrenia, se solo qualche settimana prima il Fondo nazionale per le politiche sociali perdeva 211 milioni di euro (passando da 313 a 99 milioni per il 2017) e quello per la non autosufficienza si arenava a 450 milioni di euro, perdendo l’aumento di 50 milioni promesso a suo tempo dal ministro Poletti. Da un lato, quindi, l’approvazione della legge delega contro la povertà, dall’altro il taglio ai fondi sociali: il welfare italiano soffre di qualche contraddizione.
Pensare universale colpendo i servizi
I tagli sono «un pessimo segnale per il futuro delle politiche sociali in Italia» per il presidente della Fish, Vincenzo Falabella, «un colpo assestato dopo aver fatto balenare l’ipotesi di progettare e costruire livelli essenziali di assistenza in ambito sociale validi in tutto il Paese, di definire un Piano per la non autosufficienza, di aprire una stagione in cui l’attenzione all’inclusione sociale fosse significativa e unificante». Laddove, ha ribadito il Forum nazionale del Terzo Settore nei primi commenti a caldo dopo la notizia, «la spesa sociale italiana necessiterebbe di maggiori investimenti per rafforzare le misure di inclusione sociale delle persone svantaggiate, non certo di tagli che minacciano la realizzazione di servizi sociali di base e rappresentano inaccettabili passi indietro».
Una tragica beffa per Anmic, che, secondo il presidente, Nazaro Pagano, priverà migliaia di famiglie con disabili gravi e anziani non autosufficienti, di quei pochi servizi di assistenza che ancora funzionano».
L’approvazione della legge delega appare, perciò, come un primo passo su una strada che affaccia su troppe domande aperte. È un primo passo per don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento nazionale Comunità di Accoglienza, ma «lascia esterrefatti che lo stanziamento per il fondo contro la povertà sia stato realizzato, di fatto, anche sottraendo risorse al Fondo nazionale per le politiche sociali e al Fondo per le non autosufficienze. Si sono tolti soldi ai poveri per darli a quegli stessi poveri. Non comprendiamo il senso di decisioni che incideranno negativamente sulla qualità e la quantità dei servizi integrati per le persone e le comunità proprio nel momento in cui il governo vorrebbe mandare ai cittadini, e in particolare a quelli in maggiore difficoltà, un segnale di attenzione ai loro bisogni fondamentali».
Il futuro nei decreti attuativi
«In Italia esistono welfare locali caotici e disorganizzati. La Svezia spende meno di noi per la spesa sociale: questo significa che c’è un problema di retribuzione delle risorse», ha spiegato Antonio Russo, consigliere di presidenza nazionale delle Acli, che durante un convegno organizzato a Roma, hanno chiesto al Governo di impegnare 7,1 miliardi di euro in 4 anni in un piano di contrasto alla povertà.
«Esiste un sistema di welfare a macchia di leopardo: occorre costruire un sistema dei comuni e delle comunità, individuare i livelli essenziali delle prestazioni sociali, che hanno lo scopo di garantire su tutto il territorio nazionale diritti sociali e civili inalienabili».
Per poter dare una lettura completa della questione, tuttavia, bisogna aspettare i decreti (o il decreto) attuativi. Ma Emanuele Ranci Ortigosa, direttore scientifico dell’Istituto per la ricerca sociale, in un commento raccolto da Redattore Sociale subito dopo l’approvazione della legge delega povertà, ha precisato che, mentre i fatti dimostreranno la consistenza di questo processo, «intanto il taglio ai fondi sociali non fa altro che confondere le idee su quello che verrà. Tagliare i fondi sociali non è coerente con l’affidare progetti e livelli essenziali ai territori. Tagliare questi fondi quando si sta per avviare progetti sulle famiglie in povertà è del tutto contraddittorio. Vuol dire enunciare cose senza dare risorse per farle ai territori, soprattutto nel Mezzogiorno». Affinchè i servizi sui territori possano tenere un nuovo welfare, secondo Ortigosa, servirebbero tra i 5 e i 6 miliardi. «Cifre assai lontane dagli attuali fondi sociali. Occorre un incremento sostanziale di risorse che vada in questa direzione. Nessuno immagina che si possa arrivare a queste cifre nel giro di uno o due anni, ma se restiamo sugli attuali fondi sociali, e per di più sui tagli, siamo assolutamente fuori strada».