IMMIGRATI. PIÙ EUROPA E REGOLARIZZAZIONE PER TUTTI
Facciamo il punto con P. Camillo Ripamonti, che condivide la proposta di regolarizzare gli immigrati. Fa bene a loro e fa bene a noi
16 Aprile 2020
Ieri 51 persone superstiti e cinque cadaveri sono stati riportati a Tripoli, dopo essere rimasti alla deriva su un gommone per quattro giorni. Ma ai cinque cadaveri bisogna aggiungere sette dispersi.
Negli ultimi giorni si sta riaccendendo l’attenzione sul tema degli sbarchi, che in realtà non si sono mai interrotti: dal 1 gennaio 2020 al 15 aprile sono sbarcate sulle nostre coste 3.231 persone, di cui 539 minori, secondo i dati del Ministero dell’Interno, con una certa concentrazione tra il 6 e il 13 aprile. Intanto, la nave Alan Kurdi è ferma con 150 migranti a bordo e quattro ministri – Trasporti, Interni, Esteri e Salute – hanno firmato un decreto che definisce non sicuri i porti italiani, a causa dell’emergenza Covid19. Così il tema immigrazione incrocia quello dell’emergenza, e non solo per quanto riguarda i nuovi arrivi, ma anche per la situazione degli immigrati già presenti nel nostro Paese.
Facciamo il punto con padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli (il servizio dei gesuiti per i rifugiati) di Roma.
«Gli sbarchi sono continuati nei primi mesi del 2020», spiega, «perché la situazione in Africa, e particolarmente in Libia, continua ad essere delicata, per cui non mi sorprende che le persone continuino ad utilizzarla come luogo da cui partire. Probabilmente la stretta e l’attenzione quasi ossessiva dello scorso anno sugli sbarchi li avevano contenuti decisamente, mentre adesso sono aumentati, anche se restano meno della metà rispetto a quelli del 2018. Ovviamente, la nostra attenzione in questo periodo è stata quasi tutta attirata dalla pandemia, che ha colpito prima l’Italia, poi l’Europa, poi il mondo intero. In questo momento sembra che l’attenzione ritorni, complice il bel tempo che, nelle ultime settimane, ha facilitato la partenza di più imbarcazioni, mentre la situazione in Libia è appunto diventata molto più instabile».
A causa del Covid 19, i nostri porti non sono più sicuri, secondo il decreto governativo. È vero o è un pretesto per chiuderli?
«La situazione, con questi numeri di persone che sbarcano, si può gestire. Tra l’altro c’era una circolare del Ministero degli Interni che individuava una procedura precisa su come fare: i test alle persone, l’individuazione di centri per la quarantena, eccetera. Sembra quindi che il definire non sicuri i porti italiani per l’emergenza coronavirus sia un po’ pretestuoso. Non bisogna sottovalutare quello che stiamo vivendo, ma si tratta di due questioni diverse. E comunque queste persone in mare rischiano la loro vita e quindi il soccorso si impone sia per la legge del mare, che per un principio di umanità. Definire insicuri i porti sembra un po’ strumentale: il tema immigrazione è sempre stato un argomento di contrapposizione politica e continua ad esserlo, per cui i migranti vengono strumentalizzati anche adesso».
Resta il silenzio, o l’assenza da parte dell’Europa. In questo momento stiamo cercando di ottenere più aiuti per l’emergenza legata al COVI19, ma anche sul fronte immigrazione non è che l’Europa sia molto presente.
«Mi sembra che l’atteggiamento nei due casi sia lo stesso. La mancanza di solidarietà nei confronti dei migranti è lo stesso atteggiamento che abbiamo visto con l’irrigidimento su alcune questioni relative agli aiuti per la pandemia. L’Europa si dimostra non solidale, e in questo incoerente con i princìpi che avevano ispirato i padri fondatori. Mi auguro che questa esperienza drammatica, che tutti stiamo vivendo, ci svegli da questo torpore, dall’indifferenza verso l’altro, e ci faccia vedere quale sia invece la strada comune da intraprendere, che è quella della solidarietà, del sentirci parte di una comunità».
A Roma c’è il Palazzo Selam, dove abitano circa 800 migranti, chiuso per contagio. A Torre Maura, un gruppo di migranti chiusi in un Centro di accoglienza ha incendiato materassi per protesta. Sono casi estremi, ma gli immigrati che sono già in Italia come stanno vivendo questa emergenza?
«Posso parlare dei richiedenti asilo e dei rifugiati, perché di loro mi occupo. E posso dire che fin dall’inizio dell’epidemia sono molto sensibili, soprattutto quelli che provengono dall’Africa Subsahariana, probabilmente perché alcuni di loro sono in fuga da Paesi in cui ci sono stati il virus Ebola, o altre malattie che hanno sperimenatto nella loro comunità. Quindi questa esperienza per loro non è ignota. Sono molto attenti e quindi molto recettivi, quando si consigliano misure di prevenzione. Ovviamente, aumentando le settimane di isolamento sociale, nei centri di accoglienza, così come succede nelle nostre famiglie, sale la tensione, perché la convivenza all’interno di spazi chiusi, confinati, diventa più faticosa. Chiaramente non si può giustificare quello che è successo nel Centro di Torre Maura, però dobbiamo mettere in conto che la tensione cresca nelle comunità grandi, ancora più che in famiglia, e che sia più difficile far convivere le persone e gestire le insorgenze. E purtroppo le politiche nell’ultimo anno hanno incentivato centri di grosse dimensioni, rispetto a quelli piccoli o ad accoglienze diffuse sul territorio. Però in generale gli immigrati sono molto sensibili a questo tema. È un po’ come quando li si invita a fare vaccinazioni: rispondono subito, perché hanno visto nei loro Paesi come una vaccinazione ti cambia o ti salva la vita».
All’emergenza sanitaria seguirà – sta già iniziando – un’emergenza economica e sociale: disoccupazione, aumento della povertà. Tutto questo colpirà anche gli immigrati, che spesso hanno situazioni occupazionali precarie, non hanno un contesto familiare che possa supportarli, eccetera.
«Si pongono diverse questioni. Una è conseguente alle politiche che sono state portate avanti negli ultimi due anni, in cui si è resa difficile la regolarizzazione di alcuni migranti , soprattutto negando il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Quindi molti in questo anno sono diventati irregolari, perché non hanno potuto trasformare il loro permesso di soggiorno in permesso di lavoro. L’epidemia ha trovato queste persone in una situazione di precarietà e l’ha trasformata in povertà assoluta. Alla nostra mensa vediamo arrivare persone che hanno fame, che letteralmente non sanno come fare a mangiare.
Poi ci sono persone che avevano il permesso di soggiorno e stavano cominciando a fare i primi passi nell’integrazione, ma l’epidemia ha bloccato questo processo e non si vede, a breve, una possibilità di uscita. Infine ci sono quelle situazioni che la Caritas definisce “equilibristi della povertà”: nuclei familiari in cui basta un piccolo cambiamento nella situazione, nel contesto, per diventare poveri (magari perché uno dei due perde il lavoro…)
Da più parti è stata avanzata la proposta di regolarizzare gli immigrati (probabilmente 600mila) senza permesso di soggiorno.
«Non mi piace che sia l’urgenza a determinare una soluzione che poteva essere pensata nel tempo in modo ragionevole. Ma ovviamente in questo momento regolarizzare gli immigrati avrebbe due risvolti positivi. Uno è quello di permettere a queste persone, atraverso appunto la regolarizzazione, di trovare un lavoro – magari in agricoltura – e di uscire dalla situazione di povertà estrema. L’altra è permettere una maggiore gestione dal punto di vista sanitario, a tutela della sua salute, ma con una ripercussione positiva sulla comunità».
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