RELIGIONI IN CARCERE: PRATICARE LA PROPRIA FEDE È UN DIRITTO
È una partita da giocare quella tra i detenuti stranieri, che non possono praticare il loro credo, e il sistema penitenziario italiano, spesso indifferente
28 Novembre 2016
Solo nell’ultimo decennio in Italia sono state denunciate le condizioni di vita dei detenuti in carcere, condizioni che sono progressivamente peggiorate a causa del sovraffollamento. Recentemente un intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per trattamento inumano e degradante, sollecitando la soluzione di tale problema. Se di carceri quindi si è iniziato a parlare, sono ancora molte, però, le questioni d’emergenza ignorate o spesso non condivise e tra queste c’è il diritto all’assistenza religiosa. Proprio lo scorso 30 marzo 2016, in merito ad un ciclo di corsi organizzati a Milano sul tema delle religioni in carcere , è intervenuto così il segretario provinciale della Lega Nord di Milano, Davide Boni: «Sarebbe bene che queste persone scontino la pena nel proprio paese di origine […] I corsi dovrebbero essere fatti non agli agenti, ma agli stessi stranieri, insegnando loro quali siano i valori fondanti della nostra società, che devono essere rispettati per potere vivere onestamente in questo Paese.»
Il diritto all’assistenza religiosa
Cos’è il diritto all’assistenza religiosa ce lo spiega Massimo Rosati, professore di Sociologia generale dell’Università di Roma Tor Vergata, con l’articolo del 7 gennaio 2013, Religioni in carcere, pubblicato nel blog online Reset.
Il professore, sul tema delle religioni in carcere, ha spiegato così il significato: «Di cosa parliamo? Della possibilità di pregare secondo le regole del proprio culto, che non sempre rimettono la preghiera al solo foro interiore della coscienza, ma chiedono tempi e spazi precisi, difficili da armonizzare con tempi e spazi della vita del carcere; della possibilità di celebrare liturgie specifiche; della possibilità di seguire norme alimentari specifiche; della possibilità di vedere trattato il proprio corpo – in carcere si sa, tutto impatta sul corpo – secondo norme particolari (dalle cure igieniche a quelle mediche); della possibilità di avere assistenza spirituale e/o relative all’applicazione di norme religiose in un contesto così difficile mediante il rapporto con un ministro di culto della propria tradizione o con un rappresentante della propria comunità; della possibilità di avere accesso ai testi sacri o ad altri simboli religiosi considerati sacri; della possibilità stessa di venire informati in modo completo ed esauriente circa le condizioni del diritto al culto dietro le sbarre. »
Religioni in carcere: qualche dato
Per comprendere la vastità del problema è bene conoscere qualche dato in più. L’Istat al 31 dicembre 2013 ha censito 62.536 persone detenute nelle carceri italiane. I detenuti nati all’estero rappresentano il 36%. I detenuti stranieri provengono per la maggior parte dall’Africa (46,3%), in particolare dal Marocco e dalla Tunisia (18,6% e 12% rispettivamente), nonché dall’Europa (41,6%), soprattutto dalla Romania e dall’Albania (16% e 13%), cui seguono quelli provenienti dalle Americhe e dall’Asia.
Nel quadro della multiculturalità che contraddistingue la popolazione straniera in Italia, tra il 2011 e il 2012 la fede cristiana è la più diffusa tra i cittadini stranieri (56,4%, pari a poco più di 2 milioni e 56 mila individui dei 3 milioni e 639 mila cittadini stranieri residenti), con il 27% di individui che si professano ortodossi, il 25,1% cattolici e il 2,7% protestanti. Poco più di un quarto è di fede musulmana (26,3%), molto più contenuta è la presenza di buddisti (circa il 3%) o di seguaci di altre religioni (5,6%).
Gli stranieri che si dichiarano atei sono il 7,1%. Oltre uno straniero su due attribuisce alla sfera religiosa un’elevata importanza nella propria vita.
Circa l’80% dei cittadini stranieri, che dichiarano un’appartenenza religiosa, prega o recita formule sacre al di fuori dei riti religiosi almeno qualche volta l’anno: il 38% tutti i giorni, il 17% qualche volta alla settimana, il 9,9% qualche volta al mese e il 9,4% qualche volta l’anno. Il 20,2% non prega mai (o mai recita formule sacre) al di fuori dei riti.
L’attuale quadro normativo in Italia
Per gettare ora uno sguardo al quadro normativo, possiamo dire che il sistema penitenziario italiano risulta ancora non in grado di affrontare una sfida nell’adottare un sistema pluralista dei credi all’interno delle carceri.
Il sistema penitenziario italiano prevede infatti l’implementazione del diritto al culto in due modi: attraverso la presenza e il lavoro dei cappellani cattolici, che sono a tutti gli effetti parte dello staff di un istituto penitenziario, o attraverso la presenza di ministri di culto o rappresentanti di altre religioni la cui possibilità di ingresso e intervento è regolata dalle specifiche forme di accordi che lo Stato italiano ha volta per volta con le singole comunità religiose.
Si può quindi certamente affermare che la totale assenza di una legge organica sulla libertà religiosa e l’esistenza di intese precarie fa sì, che oggi il diritto alle religiosità è affidato all’etica volontaristica e umana di tutti gli operatori coinvolti, nell’accontentare e nell’acconsentire alle richieste di ogni singolo detenuto.
Quale possibile scenario di cambiamento?
Un’educazione che funga da garanzia alle libertà e all’uguaglianza dei diritti civili e sociali dei cittadini, e che renda possibile ad ogni cittadino di non privarsi di quei fondamenti identitari caratteristici di ognuno di esso potrebbe far intravedere possibili scenari di cambiamento.
Si deve ammettere che l’indifferenza che propaga nella nostra società sembra trovarsi anche in quelle istituzioni che come tali dovrebbero, invece, educare e sostenere un’etica di inclusione e un educazione democratica.
In copertina: Religion Stencil (Edited), Matthew Fearnley