SENZA OPG. CHIUSI I “MANICOMI GIUDIZIARI”, RESTANO ALCUNI PROBLEMI APERTI
Per Antigone nelle 30 Rems italiane sono ricoverate 599 persone. Ad un anno e mezzo dalla chiusura degli Opg li abbiamo superati davvero?
12 Ottobre 2018
Era il maggio dello scorso anno quando gli ultimi due pazienti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, lasciarono l’ultimo Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) ancora attivo.
Un momento storico, che ha segnato la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo un secolo dalla loro istituzione, e a quaranta anni dalla riforma Basaglia, gli Opg, un tempo conosciuti come “manicomi giudiziari” e prima ancora noti con il nome di manicomi criminali, hanno realmente chiuso i battenti. Un evento che pone fine a oltre 100 anni (era il 1904 quando il governo Giolitti approvò la prima legge sui manicomi) di violenze e coercizione ai danni di chi, anziché essere privato della libertà, avrebbe dovuto essere curato.
L’approccio alla cura del malato anziché della malattia ha lo scopo di reinserire il malato psichiatrico all’interno del tessuto sociale. Per le persone libere, con la legge 180/78, si è passati dalla custodia coercitiva alla terapia riabilitativa mentre per i detenuti con disagi psichici, fino alla legge 81/2014, c’erano gli Opg. Ospedali nei quali i “folli-rei” erano rinchiusi in condizioni drammatiche: isolamento, contenzioni abituali e condizioni igieniche precarie; incarcerati spesso a vita, poiché ritenuti pericolosi socialmente e impossibili da reinserire. Un non-luogo nel quale venivano segregate non-persone.
Se è vero che la libertà è terapeutica, all’interno degli Opg la salute mentale degli internati poteva solo che peggiorare: senza diritti, in quanto incapaci di intendere e di volere e senza possibilità di cura, poiché questi istituti erano ospedali solo di nome.
CHE COSA SONO LE REMS. Oggi gli ospedali psichiatrici sono stati sostituiti dalle Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture molto differenti sia nella forma che nella sostanza rispetto ai loro antenati: gli utenti non possono superare le 20 unità, l’uso dei mezzi coercitivi è assente e la permanenza nelle strutture non può superare la durata della pena prevista per il reato commesso. Questo per evitare il fenomeno degli “ergastoli bianchi” ovvero la permanenza all’interno dell’Opg per un tempo che il magistrato poteva prorogare all’infinito. Tali strutture sono gestite esclusivamente da personale sanitario e ciascun paziente deve seguire un programma terapeutico individuale.
L’EXTREMA RATIO. Per la legge 81 le Rems sono da considerarsi una extrema ratio, l’ultima delle soluzioni da prendere in considerazione e solo dopo aver vagliato misure di sicurezza non detentive.
Il rapporto tra istituti penitenziari e detenuti con patologie psichiatriche però è da sempre molto complesso e la gestione dentro e fuori i penitenziari delle patologie psichiche è molto difficile: il personale medico, tra cui psichiatri, psicologi e infermieri, all’interno dei penitenziari non è sufficiente a coprire gli effettivi bisogni della popolazione carceraria; l’informatizzazione della cartella clinica è presente solo in rari casi e ciò rende complicato sia quantificare la popolazione che necessita di cure e sia garantire la continuità delle terapie psicologiche che il detenuto aveva fuori.
I casi limite, un tempo spediti in Opg, oggi ingrassano le liste d’attesa delle Rems, con il rischio concreto che tali strutture alla lunga possano diventare una valvola di sfogo, come lo erano gli Opg, laddove a monte non si adoperino interventi necessari a garantire soluzioni efficaci per la cura della salute mentale dei detenuti.
LE REMS IN NUMERI. Secondo il 14mo rapporto sulle condizione di detenzione di Antigone onlus, “Un anno in carcere”, «Al 15 marzo 2018, nelle 30 Rems italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9%, percentualmente quasi il doppio delle donne detenute in carcere)».
All’interno del report viene evidenziato anche che «Il numero di presenze corrisponde ai posti disponibili e questo permette di sottolineare l’ammirevole “resistenza” da parte dei servizi sanitari nel non eccedere il numero massimo di posti previsto, evitando il sovraffollamento». Dunque al momento, su base nazionale, si sta scongiurando quello che gli addetti ai lavori paventavano più di ogni altra cosa, ovvero la trasformazione delle Rems in tanti piccoli Opg.
IL CASO DEL LAZIO. Nel Lazio le Rems attive sono 5 con un numero di posti pari a 91, i pazienti ad oggi ospitati sono 84 e Pontecorvo ospita esclusivamente pazienti di sesso femminile. Il Lazio insieme alla Lombardia è la regione che ha il maggior numero di posti e anche quella nella quale l’organizzazione delle Rems è ancora lontana dai criteri della legge del 2014.
Un operatore, che preferisce rimanere anonimo, spiega che il sistema appena nato ha già molte pecche e che se non si corre subito ai ripari, presto lo spettro degli opg potrebbe rimanifestarsi. «Partiamo subito col dire che la parola internato ancora esiste nel codice penale e nell’ordinamento penitenziario e, se esiste la parola, esiste tutto ciò che essa si porta dietro, detto ciò le criticità che sono emerse con il passaggio dagli Opg alle Rems sono molte». Se da un lato la teoria è lodevole, dall’altro lato la pratica è tutt’altro che rosea: «Il punto più critico sono i Dsm, i Distretti di salute mentale, ovvero la psichiatria territoriale. A parte rarissime eccezioni in cui il sistema funziona, non sono mai entrati in carcere, hanno fatto di tutto per non entrarci mai, ribadendo come il carcere non riguardi le Asl, e ciò impedisce quella connessione al territorio che è tra i capisaldi della legge» nonché il punto di forza per permettere un reale reinserimento del detenuto una volta in libertà.
Inoltre ogni Regione interpreta la legge secondo i propri criteri e non esiste uniformità a livello nazionale; alcune strutture, come ad esempio Subiaco, ma Pontecorvo non è da meno, sono provviste di evidenti e massicci dispositivi di sicurezza (metal detector, sbarre fino al soffitto, telecamere di sorveglianza) che bypassano i requisiti prettamente terapeutici che dovrebbero avere tali strutture.
LE NOTE DOLENTI. Poi, secondo il principio che le Rems debbano essere gestite esclusivamente da personale sanitario, la prassi che si è scelto di perseguire è alquanto dubbia: «a dirigere tali strutture sono state messe figure senza esperienza penitenziaria e gli stessi operatori sono stati assunti senza alcuna esperienza pregressa di stampo carcerario. Per formare equipe valide che si occupino di tali strutture ci vogliono anni» e questo pone un grosso interrogativo sull’effettiva efficacia di tali servizi.
Altra nota dolente è la mancanza delle cartelle cliniche informatizzate dei detenuti insieme alla mancata «valutazione del bisogno dell’assistenza e della valutazione sull’impatto sociale degli interventi socio sanitari condotti in favore della popolazione detenuta». Tutto ciò si ripercuote sul lavoro dei magistrati che spesso sono costretti a «operare delle forzature perché –senza alcun tipo di dato conoscitivo – non sanno dove mandare i detenuti». La stessa posizione giuridica dei detenuti delle Rems risulta, a conti fatti, contraddittoria: secondo i dati dell’osservatorio di Antigone «i prosciolti per vizio totale di mente, ma socialmente pericolosi (ex art. 222 c.p.) che dovrebbero costituire la categoria giuridica paradigmatica del ricoverato in REMS sono 215, pari al 37% del totale, una netta minoranza» mentre «i pazienti con una misura di sicurezza provvisoria arrivano ad essere il 45,7 % del totale.»
C’è poi l’incognita del fine pena: chi si prende carico del detenuto appena rimesso in libertà? «La mancata connessione tra Asl e amministrazione territoriale», conclude l’operatore, « e la mancanza di strutture atte alla presa in carico del detenuto con disagio psichico comportano un altissimo rischio di recidiva».
Insomma, gli interrogativi sui quali Ministero della salute e Dipartimento di giustizia devono rispondere sono ancora molti e il rischio di creare nuovi Opg risulta tutt’oggi concreto, per tale motivo l’attenzione sulle Rems deve restare alta.
Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazione@cesv.org
2 risposte a “SENZA OPG. CHIUSI I “MANICOMI GIUDIZIARI”, RESTANO ALCUNI PROBLEMI APERTI”
per esperienza personale posso dire che il sistema di gestione rems è desolante.tralascio l’assurdità della vicenda di mio figlio troppo lunga,ma sappiate che con semplici problemi di personalità da 18 mesi è internato a castiglione .impediscono ogni alernativa. é totalmente innocuo .inventano presumibili indicatori interni di pericolosita inesistenti .presentati da discutibili dott. a magistrato compiacente e indifferente che non ascolta altro ne’ si informa di nulla.giace nell’ozio degrado e disperazione assoluta.senza contare che occupa un costosissimo e raro posto per veri pericolosi sociali che girano liberi.
Cara sig.ra Tina anche mia figlia si trova a Castiglione dal 2005 un po fuori (strutture, casa) e po non avendo trovato nessuna struttura adatta e dopo 4 mesi di SPDC hanno decretato l’invio a Castiglione che come vedo mi sembra peggiorativo rispetto ad anni fa quando si chiamava OPG.
Un saluto .
Tiziana V.