RIFORMA DELLA DISABILITÀ: IL PROGETTO DI VITA RESTERÀ SULLA CARTA?
La Riforma della Disabilità mira a un modello sanitario legato ai diritti e al progetto di vita. Stavolo, FISH Lazio: «Siamo diventati bravissimi a mettere nero su bianco le esigenze con parole bellissime, ma dal punto di vista applicativo soffriamo per la tendenza a standardizzare gli interventi anziché personalizzarli»
22 Gennaio 2025
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Il linguaggio si perfeziona, la sensibilità cresce e l’attenzione si moltiplica. Ma certi problemi in termini di approccio alla disabilità restano, soprattutto quando bisogna dar seguito alle parole con dei fatti concreti. La nuova Riforma della Disabilità si prefigura come una via per de-istituzionalizzare i processi e promuovere l’autonomia delle persone, rafforzando l’offerta e l’accesso ai servizi sociali, la semplificazione delle procedure di riconoscimento con un unico soggetto accertatore (l’Inps) ed eliminando le visite di rivedibilità. Dovrebbe quindi avvenire il passaggio dall’assistenzialismo puro alla valorizzazione della persona nella sua multidimensionalità, superando così le rigidità burocratiche. Facile a dirsi, molto più complesso a farsi.
Riforma della disabilità, FISH Lazio: «Soffriamo ancora per la tendenza a standardizzare gli interventi»
«Siamo diventati bravissimi a mettere nero su bianco le esigenze con parole bellissime, però dal punto di vista applicativo soffriamo ancora per la tendenza a standardizzare gli interventi anziché personalizzarli», è il pensiero di Daniele Stavolo, presidente della FISH Lazio, l’organizzazione regionale della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap. FISH Lazio a dicembre ha organizzato gli Stati generali della disabilità. «Dal confronto tra le varie associazioni è emerso che nel Lazio le politiche ancora non garantiscono questa partecipazione», ha aggiunto, «e che non c’è piena omogeneità di intervento nelle varie province». Roma, per il suo fermento associativo, è avanti rispetto alle altre città. «Ad esempio c’è il servizio di assistenza domiciliare in forma indiretta, cioè viene messo a disposizione della persona un budget per l’assunzione di un assistente: è un modo per autogestire la propria autosufficienza e fuori città questa prassi è carente». Insomma, resta complesso distaccarsi dal modello in cui l’ente gestore mette a disposizione un operatore che diventa, però, l’organizzatore stesso dell’assistenza; a quel punto è la persona con disabilità ad adeguarsi al servizio, non viceversa. L’abitudine a lavorare solo con i bandi è consolidata, con tutti i limiti del caso: i progetti hanno una durata limitata nel tempo e criteri di accesso poco personalizzati, in contrasto all’idea del “progetto di vita”, la vera rivoluzione della nuova legge.
Sul territorio le associazioni navigano a vista
Chi necessita di servizi, fin qui, ha sempre dovuto bussare alle porte dei diversi enti che gestiscono separatamente la parte della riabilitazione, quella scolastica, gli aspetti socio-sanitari, l’inserimento lavorativo, e così via. L’auspicio del legislatore è quello che, d’ora in avanti, ci sia un coordinamento e un maggiore ascolto per realizzare un vero progetto di vita. La sperimentazione delle nuove linee guida è già partita nelle province di Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste. Nel frattempo, sparisce dalle norme la parola “handicappato” (legge 104/1992) e viene ridefinito il concetto di disabilità come “una duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri”. Il tentativo è quello di passare da un modello esclusivamente sanitario a uno legato ai diritti, per i quali viene istituito anche un Garante nazionale (nominato l’avvocato Maurizio Borgo). Tutto questo lavoro, però, rischia di naufragare in un mare di incertezze. Se a livello nazionale si hanno stime sia sui numeri sia sugli investimenti dei comuni (il più attivo tra quelli con più di 200 mila abitanti è Trieste, che spende 121,72 euro pro capite, contro i 26,75 di Roma, in settima posizione) sul territorio le associazioni navigano a vista. «Servirebbe prima di tutto un censimento per poter programmare gli interventi, a partire dal lavoro», è l’allarme lanciato dal presidente della FISH Lazio.
Disability card: risposte a macchia di leopardo
A fine ottobre si sono svolti anche gli Stati Generali sulla disabilità intellettive e i disturbi del neurosviluppo, un evento di Anffas Lazio nel quale è emerso come si debba ancora perseguire una vera inclusione sociale attraverso strumenti di co progettazione e co programmazione. Il 18 gennaio, a Viterbo, è stato invece posto di nuovo l’accento sulla disability card, strumento che consente alle persone con disabilità di accedere a una serie di agevolazioni e servizi, dai trasporti alla cultura, dalle attività commerciali agli eventi. Già a novembre del 2023, il consiglio comunale aveva approvato un ordine del giorno per aderire alla carta europea, in un anno però le risposte sono arrivate a macchia di leopardo. Un esempio lo racconta Raimondo Raimondi della Consulta del Volontariato: «A settembre c’è stato come sempre il trasporto della macchina di Santa Rosa. Il comune assegna sempre un tot di posti alle persone con disabilità, che devono però presentare una documentazione. Sarebbe bastata la disability card per facilitare questo processo».
«Il Lazio ha bisogno di una transizione verso modelli più inclusivi»
Agli occhi del mondo l’Italia vorrebbe candidarsi a modello. Di recente si è svolto, proprio nel nostro Paese, il primo G7 dedicato alla disabilità, nel quale è stata ratificata la Carta di Solfagnano per adottare politiche in linea con la Convenzione ONU. Al Global Disability Summit di Berlino nel 2025 bisognerà arrivare con qualche compito a casa già svolto. «Vogliamo rimettere al centro delle agende di tutti i Paesi i temi dell’inclusione e delle disabilità», la promessa della ministra per la disabilità, Alessandra Locatelli. In Italia l’Istat stima in 2,9 milioni le persone che, a causa dell’interazione negativa tra condizioni di salute e ambiente di vita, non sono in grado di svolgere le attività che normalmente un individuo compie. Sono persone per lo più anziane (1 milione e 326 mila ultra 65enni), spesso fragili (il 28,4% vive da solo), in cattive condizioni di salute (il 55,4%) e che ricevono aiuti insufficienti (circa 2 milioni). Solo il 33,5% è occupato, contro il 60,2% del resto della popolazione. «Difficile dire se il Lazio rispetto alle altre regioni sia un modello» è la conclusione di Stavolo. «Certamente quello che troviamo nel bilancio regionale è una marea di fondi destinati alle strutture e una scarsità di fondi destinati a garantire alle persone la vita all’interno della società. Occorre avviare una transizione verso modelli più inclusivi. Si sa quando si entra nelle strutture e non si sa quando se ne esce».