SCUOLE DI PERIFERIA: VERI LABORATORI SOCIALI, CON UN RESPIRO INTERNAZIONALE
È qui che si trovano esperienze innovative e creative, si imparano le regole e l'ascolto, si sperimenta il mondo
20 Dicembre 2017
Cosa succede nelle periferie? È un tema che viene lanciato sempre più spesso dai media, in seguito agli atti terroristici, alle migrazioni, a certe manifestazioni di insofferenza verso gli stranieri da parte degli abitanti locali. All’interno di questo tema c’è quello delle scuole di perfieria, che hanno un compito ancora più difficile in situazioni di disagio. E spesso rispondono a tutto questo aprendosi, facendosi carico dei problemi, reiventandosi. E diventando esempio di integrazione, baluardo di resilienza.
Se ne è parlato al seminario per giornalisti “Il mio giardino”, organizzato da Redattore Sociale a Capodarco di Fermo. Vinicio Ongini, dell’Osservatorio per l’Integrazione del Ministero dell’Istruzione, ha raccontato alcuni casi di scuole di periferia che sono un esempio in questo senso. A partire dall’iniziativa “Le scuole al centro”, destinata all’apertura estiva delle scuole nelle grandi città, quelle con il più alto abbandono scolastico, Napoli, Roma, Milano e Palermo: linguaggi artistici, musica, teatro, gioco per togliere i ragazzi dalle strade.
SCUOLE APERTE. A Napoli, alla scuola Ilaria Alpi a Scampia, è stato realizzato un video con i ragazzi intitolato “Scampia non è solo Gomorra”, per fare una sorta di contronarrazione, ed è stata aperta una libreria, La Scugnizzeria.
A Roma, nel quadrante più multietnico, a sud est, a Torpignattara, c’è una scuola, la Carlo Piscane, che veniva chiamata scuola ghetto: il 90% di alunni non erano italiani. Di fronte a questa etichetta, e al fatto che i genitori italiani spostavano i figli in altre scuole, ha cercato di chiamarsi ufficialmente “scuola internazionale”. «Ci sono tanti alunni stranieri», riflette Ongini. «E allora ci sono tante lingue, tanti mondi. E così si è chiamata scuola internazionale, ha risposto capovolgendo lo schema».
Anche a Milano, in via Paravia, vicino San Siro, c’è una scuola ghetto, la Lombardo Radice. «Accanto c’era un luogo adibito a moschea, immaginate la facilità di confusione», ricorda Ongini. «Volevano chiuderla. Se il ghetto è il massimo della chiusura, loro si sono chiamati “scuola aperta”, e hanno aperto la sera, il sabato e la domenica, hanno realizzato un mercatino con la Coldiretti».
Eccole, le storie di un racconto differente, che non usa i canoni della comunicazione di oggi. Ongini ci racconta anche di aver ricevuto la lettera di una mamma che si è spaventata quando ha visto che nella classe della figlia, in prima elementare, c’erano 12 alunni stranieri. «Le ho risposto che una classe con 12 alunni stranieri è uno specchio di come è il mondo, è una classe mondo» ricorda Ongini. «La sua Cecilia si sta allenando a come è il mondo. Se fosse in una classe solo toscana, non lo farebbe».
A NISIDA, SENZA SBARRE. Ma nelle periferie ci sono ragazzi dalle vite ancora più difficili. Come quelli che vivono nel carcere minorile. Maria Franco (tra i 5 vincitori del premio per miglior insegnante italiano) fa l’insegnante all’Istituto Penale di Nisida, in Campania. In fondo, anche questa è una delle scuole di periferia. Qui lei incontra ogni giorno una sessantina di ragazzi con alle spalle storie molto pesanti: il padre, i fratelli, a volte la madre in carcere. Hanno una preparazione inesistente in termini scolastici, non hanno mai finito la scuola dell’obbligo, sono fermi alla quarta bocciatura in prima media. Spesso hanno atteggiamenti ostili, o molto depressi. Sono quasi tutti immersi in una struttura di tipo camorrista: anche se non sono inserirti nella camorra la loro idea è quella di avere tanto denaro come simbolo di potere, e quindi abiti, donne di un certo tipo. Avulso da un rapporto con se stessi, con il proprio io.
«Non hanno mai avuto dei contrappesi positivi» ci racconta Maria Franco. «Hanno visto Palazzo Reale o un museo archeologico perché ce li abbiamo portati». «Il tentativo che viene fatto nella scuola all’interno dell’istituto penale è fornire vari input», ci spiega. «Lavorare la ceramica, prendersi cura degli animali, fare la pizza, il pasticcere. La scuola diventa un momento di spazio-tempo in cui misurare la libertà: qui tutti gli ambienti hanno le sbarre, ma la scuola no». «Il ragazzo deve essere libero di cominciare a riflettere su se stesso» continua Maria Franco. «Trovare uno spazio per la parola tra le sue espressioni fondamentali, l’urlo, il gesto violento, e il silenzio, il ripiegarsi su se stesso e sul suo destino immutabile. Fargli cogliere che tra queste due dimensioni ha una possibilità diversa, quella di scegliere liberamente. È il nostro obiettivo di fondo».
Se a Scampia i ragazzi della scuola hanno fatto una contronarrazione su Gomorra, anche al carcere Nisida c’è un aneddoto su Saviano. «Ho letto in classe alcuni passi de “La paranza dei bambini”, e i ragazzi sbadigliavano da morire. Ho chiesto loro se dicesse cose false. “È tutto vero”, mi hanno risposto. Ma quello che un per un ragazzo di qualsiasi altro luogo è violento, per i ragazzi qui è qualcosa di noioso. Qualcosa che vive da quando ha sei anni».
A Nisida i ragazzi lavorano a un giornalino. È un lavoro di scrittura mediata, inclusiva e collettiva, anche insieme ad autori importanti. «Il primo anno lavoriamo sulla grammatica» spiega Maria Franco. «Lavoriamo su un articolo, un pronome, un verbo: è un modo per i ragazzi di parlare di se stessi. Non possono parlare direttamente delle loro esperienze, del rapporto con la madre, col padre, sono cose troppo forti. E in questo modo hanno tirato fuori cose importantissime, alcune cose di sé».
LE REGOLE. C’è una piccola speranza di riscatto, nei ragazzi che frequentano le lezioni di Maria Franco. Sono storie di riscatto, e di diversità, quelle che scrive Marco Moschini, maestro e oggi autore di libri per bambini. Storie di piccoli perdenti che non si danno per vinti. Come Scodino, il pesciolino senza coda che non cede, perché tutti sanno fare qualcosa, chi ha la coda non ha il suo coraggio.
Anche Moschini si sofferma sull’ascolto. «Il disagio che esplode a scuola è la conseguenza di ascolti che non ci sono stati in precedenza, riflette. «Saper fare ascolti profondi significa dire no quando serve. I bambini hanno bisogno di essere contenuti, e di chi assume responsabilità al posto loro perché hanno spalle troppo piccole». «Un bambino senza regole è nervoso e stressato. Come se un pilota di linea ci dicesse di pilotare al suo posto perché non è in grado. Dare a un bambino tutto quello che vuole corrisponde alla scomparsa del desiderio, del senso dell’attesa, del senso del limite. Se compare il concetto del tutto è possibile, scompare il desiderio. Un bambino ha il diritto di annoiarsi. Abbiamo paura che si annoi, per questo lo portiamo in piscina, a danza, a musica. Ma la noia è come un campo di maggese, dove la terra si ricarica per essere ancora più fertile, è nella noia che si fa fondo alle risorse creative».
L’ASCOLTO. «Quando un bambino nasce è tutta pulsione», aggiunge Moschini. «Per convogliarla verso le parte razionale servono l’accoglienza e le regole. Cos’è l’accoglienza? Non è altro che l’ascolto. Non vuol dire prestare orecchio, ma capacità di cogliere quell’opportunità di farci condurre dove la parola ci conduce. Anche la scuola deve avere la capacità di ascoltare. Capire quello che i bambini non dicono, e invece c’è una sofferenza. Come negli atti di discriminazione e di bullismo: coraggio è dire rosso quando gli altri dicono verde, coraggio è stare dalla parte di chi perde. Come diceva Martin Luther King, “non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti”».