SOLE CUORE AMORE: IL PRECARIATO, LE PERIFERIE E LE DONNE, TERMINALE ULTIMO DEL DISAGIO SOCIALE
Il regista di Diaz torna con Sole Cuore Amore, storia di ordinario sfruttamento di chi è lontano dalle scelte politiche internazionali, ma ne viene travolto
04 Maggio 2017
Eli vive di corsa, a perdifiato, tra Torvaianica, dove vive, e Roma, dove lavora. È lei, interpretata da una magnifica Isabella Ragonese, la protagonista del film Sole Cuore Amore di Daniele Vicari, nelle nostre sale dal 4 maggio.
Sole Cuore Amore, titolo preso in prestito dalla canzone di Valeria Rossi, ma che qui acquista un significato molto profondo, è un film semplice e tragico come la realtà di oggi, un gioco struggente che parte leggero per farci precipitare, insieme ai protagonisti, dopo che abbiamo imparato ad amarli. Eli lavora sette giorni su sette in un bar sulla Tuscolana, a Roma: dodici ore al giorno, più due di andata e due di ritorno.
Il marito (Francesco Montanari) non lavora, e hanno quattro figli. Vale (Eva Grieco), amica del cuore, vive di notte, fa la ballerina, e di giorno la aiuta coi bambini. Sole Cuore Amore ci regala un Vicari – solo apparentemente – più intimista dopo il colossale affresco politico di Diaz.
In realtà ci racconta il mondo del lavoro di oggi: gli avversari non sono i grandi del G8, non sono le forze dell’ordine, ma sono i piccoli, finti bonari, schiavisti che approfittano di chi ha bisogno di lavorare. Sole Cuore Amore è un film vero, necessario, con un’Isabella Ragonese che è l’icona definitiva delle donne dei nostri tempi, eroina delle vite precarie.
Dopo aver visto Diaz avevo scritto che Daniele Vicari non sarebbe stato più quello di prima. Cosa è successo dopo Diaz e come è cambiato il suo cinema?
«Non so se è cambiato il mio cinema. Dopo Diaz per quattro anni non ho fatto un film, ci sono state una serie di cose che me lo hanno reso difficile. Sono stati quattro anni importanti perché mi sono dedicato ad altre cose, come lavorare alla scuola di cinema. È proprio da quel lavoro che nasce Sole Cuore Amore. Facendo laboratorio di recitazione sull’improvvisazione abbiamo lavorato sull’essere scelti e rifiutati, e abbiamo messo in scena un gruppo di operai in procinto di essere licenziati, per costruire il rapporto tra l’attore e la realtà sociale. Improvvisamente nelle facce di questi ragazzi e ragazze ho visto tutti i miei amici che non ce l’hanno fatta a realizzarsi, che hanno avuto problemi a causa della crisi, la fatica che fanno le donne. Quando è finito il laboratorio, carico di quell’energia, mi sono messo a scrivere questa sceneggiatura in poco tempo, e questo film ha sbloccato la mia situazione, è piaciuto subito a Domenico Procacci e Rai Cinema».
In che modo una serie di esperienze autobiografiche sono entrate nel film?
«In tutti i modi, da tutti i pori. Mia madre ha conosciuto mio padre in Svizzera, erano operai. Lei lavava bottiglie riciclate, senza guanti e si distrusse le mani: tornò e con quei pochi soldi aprì un bar. Mio padre ha fatto il muratore tutta la vita ed è morto di lavoro. Io vengo da lì. Sono un perito tecnico, ero destinato a lavorare in fabbrica, poi ho fatto il regista per una serie di coincidenze fortunate, ma quello è il mio mondo. E credo che si veda».
Come Diaz, Sole cuore amore è ancora il racconto di una lotta. Cambiano i nemici, non sono più i grandi del G8, ma i piccoli schiavisti, che esercitano sempre un potere…
«Diaz è la storia di un’ingiustizia prodotta dagli apparati dallo Stato. È un nemico individuabile. Quello che si chiamava il sistema, l’ambiente psicosociale in cui siamo immersi, è quasi impossibile da combattere, è più forte di ogni volontà individuale. La cosa che mi commuove è che a queste persone che vivono lontanissime dal potere le conseguenze di scelte economiche politiche internazionali arrivano in maniera apparentemente invisibile e le travolgono. È la crisi economica: non sai cosa vuol dire e ti trovi senza lavoro. Nel film ho tentato di fare una riflessione più specifica. Per me è molto indicativa la condizione delle donne nella nostra società, che si regge sulle loro spalle e che, se decidessero di sfilarsi, crollerebbe miseramente. Perché in periodi di crisi le donne trovano più facilmente lavoro degli uomini? Perché automaticamente sono sottopagate, più ricattabili, accettano lavori che gli uomini non accetterebbero. Si ritrovano in una situazione incredibile, a essere le uniche portatrici di un reddito, e questo porta ribaltamenti di ruolo nelle famiglie. E non è un caso che si scateni la violenza contro di loro. Io ho raccontato la storia di una coppia molto solida, di persone che si amano davvero. La condizione che vivono le donne è generalizzata in questi termini: si sobbarcano il peso del welfare inesistente. Eli e Vale sono il welfare l’una dell’altra. È questa la vera solitudine in cui siamo immersi. Le donne sono il terminale ultimo del disagio sociale».
Perché Nicola è allo stesso tempo vittima e carnefice? Quanti Nicola ci sono oggi nel nostro paese, e chi sono?
«Queste persone son rese ambigue proprio dalla ristrettezza del sistema economico. Se Nicola se lo potesse permettere non farebbe lavorare Eli sette giorni su sette, e non lo farebbe neanche lui. Ma in ogni caso lui comanda, e quando deve prendere una decisione lo fa a discapito delle dipendenti. Eli alla fine del film dice: “che deve fare, è un derelitto”. Siccome Eli si fa carico del mondo, si fa carico anche della sofferenza di Nicola. L’ultima volta che si vedono gli dice “non ci puoi fare niente”. Eli ha una conoscenza profondissima della loro condizione, e allo stesso tempo ha perso la coscienza dei propri diritti. È lì che nasce la tragedia. Il cinema può aiutarci a non rimuoverla».
Le politiche del lavoro hanno fatto abbastanza per regolare un mondo fatto di centinaia di situazioni diverse l’una dall’altra?
«Negli anni Novanta i maggiori opinionisti e politici del nostro Paese, anche di sinistra, ci hanno spiegato che bisognava togliere i famosi lacci e lacciuoli, cioè il sistema di diritti che dal punto di vista della macroeconomia pone un freno allo sviluppo. Ma dal punto di vista delle persone che lavorano pone un freno allo sfruttamento. Averli sciolti ha provocato quello che stiamo vivendo. Ora il legislatore fa una fatica bestiale a ricondurre sotto una legislazione ragionevole il sistema dei diritti. Questa difficoltà ha come correlativo oggettivo la perdita totale di criteri umani sui luoghi di lavoro. L’ultima statistica europea pone l’Italia al primo posto come ore lavorate pro capite. Come mai? E siamo nel gruppo di coda per quanto riguarda il reddito. Come mai? Il tempo di vita è stato ridotto in favore del tempo di lavoro. Mia cugina si fa cento chilometri al giorno in macchina, arriva a Roma, cucina per 2500 persone e torna a casa dopo essere stata fuori 12-13 ore. Che vita può fare? Questo è un film sulle persone che amo. Sai meglio di me quanto per un giovane, o meno giovane, sia difficile portare a casa, da giornalista precario, uno stipendio che ti permetta di mantenere te stesso e la tua famiglia. È una follia. E i giornali si reggono su questo. Ho amici che a 50 anni si trovano senza reddito. Facciamo le leggi per creare lavoro, ma se creiamo questo tipo di lavoro, siamo schiavi di un meccanismo che è anche più grande del nostro datore di lavoro».
Cosa ha dato in più al film il fatto di girare al Tuscolano? Come vede queste periferie?
«Sono stato 25 anni a Pietralata, che è uguale al Tuscolano. Le persone vivono lì perché la città è stata costruita così. Ci sono luoghi che sono immensi dormitori. Non c’è stato uno sviluppo del welfare, si fa una fatica bestiale a vivere. Solo raggiungere i luoghi di lavoro, quelli per curarsi, le scuole è una fatica pazzesca. Il tempo di vita ne paga le conseguenze. Le persone non hanno più tempo di stare insieme. Per fortuna continuano ad amarsi. L’unico strumento per potercela cavare è amarci davvero, l’uno con l’altro. E amare noi stessi. Eli ha questo deficit, ama troppo gli altri, ma non ama abbastanza se stessa per sottrarsi a questo meccanismo».
Come ha costruito i personaggi di Eli e Vale?
«Eli e Vale sono lo stesso personaggio. Vale è il giornalista precario di cui parliamo. Vale è il futuro: ha introiettato la necessità di essere sola per potercela fare. Eli non ce la fa perché non è sola. Eli è la sopravvivenza del neorealismo ai nostri giorni, di un modo di lavorare classico, è una proletaria che ha i figli e fa fatica a mantenerli. Vale è il postmoderno, tutto quello che ci stiamo sorbendo da anni. Nella sua vita ha deciso di esprimersi, cerca di vivere attraverso la sua espressione artistica. È la nuova figura. Siamo tutti quanti un po’ Eli un po’ Vale, siamo tutti quanti nel passato, siamo impelagati nel presente, facciamo fatica a trovare un futuro. Forse solo il modello di Vale, che è una monade, ce la può fare, perché non si carica sulle spalle una famiglia. È un altro aspetto della tragicità di cui parliamo».
Quelli di Diaz erano anni di governi repressivi, di sospensioni dei diritti civili, di autorità. Da quello che sta accadendo, dall’America in giù, crede che questi tempi stiano tornando?
«Con l’eclissarsi dei diritti del lavoro c’è un eclissarsi dei diritti civili. La deriva autoritaria è sotto gli occhi di tutti: anche i partiti politici più liberali fanno campagna elettorale contro i migranti e categorie sociali minoritarie e odiate. Questo tipo di deriva è un fenomeno mondiale, uno dei portati della globalizzazione. Se non mettiamo in campo un po’ di energie, e di conflitto non usciamo da tutto questo. Nessuno ci concederà la libertà che ci illudiamo di avere».
Ne La nave dolce ha raccontato il primo viaggio degli albanesi verso l’Italia. Cosa pensa delle recenti polemiche sulle ong che si occupano di migrazioni?
«Queste orrende polemiche elettorali fatte sulla pelle della gente le odio a tal punto da non volerne parlare».
Si ringrazia per le immagini Koch Media Film. Ph: Emanuela Scarpa