STEVE JOBS: IL LATO OSCURO
“Steve Jobs”, il film scritto da Aaron Sorkin e diretto da Danny Boyle, racconta il creatore della Apple tra luci e ombre. Con un grande Michael Fassbender
20 Gennaio 2016
C’è del marcio in Danimarca, scriveva Shakespeare nell’ “Amleto”. C’è del marcio nella “mela”, potremmo dire per parlare di “Steve Jobs”, il film di Danny Boyle sul creatore della Apple scritto da Aaron Sorkin che, dopo “The Social Network”, racconta ancora un grande della tecnologia di oggi come se stesse mettendo in scena le vicende di un monarca del teatro elisabettiano. “Steve Jobs” è questo: un racconto universale su bene e male, su potere e ambizione, controllo e vendetta. Scordatevi il Jobs ciondolante e hippie di Ashton Kutcher nel film omonimo, e anche una narrazione da biopic che vi racconti la storia del deus ex machina della Apple dall’inizio alla fine. Il Tennesse Williams dell’era digitale – così qualcuno ha definito Sorkin – mette in scena tre atti teatrali in tempo reale, in unità di tempo e luogo, in cui assistiamo alla mezz’ora che anticipa le presentazioni più importanti della vita di Steve Jobs. Tre azioni che prendono vita in medias res, tre tranche de vie che ovviamente non sono tali – è impossibile che a ogni presentazione appaiano i nodi irrisolti della sua vita, le persone con cui è stato ed è in conflitto – ma che sono costruite, come in una sapiente piéce teatrale, per raccontarci tutto su Jobs, il passato, il presente il futuro. «La sceneggiatura era corposa, tutta fatta di dialoghi e quasi nessuna descrizione», ci ha raccontato Danny Boyle, a Roma per presentare il film. «Si può dire che sia una piéce teatrale. Mi piace il teatro, ma penso che sia qualcosa che si vede da lontano. Si è vicini all’azione, ma vorremmo essere più vicini ancora. Qui ho voluto dare un’esperienza immersiva. Volevo che gli spettatori fossero dentro la scena».
Un uomo che vede prima di noi il nostro futuro
L’azione inizia nel 1984, all’indomani del famoso spot di Ridley Scott ispirato a “1984” di Orwell. Lo diceva quella pubblicità e lo ribadisce Jobs: l’obiettivo era rompere il monopolio dell’Ibm. Jobs (Michael Fassbender) è sul palco di un teatro con il socio Andy Hertzfeld (Michael Stuhlberg) e l’assistente Joanna Hoffman (Kate Winslet, che è uno dei motori della storia, controcanto puntuale alle parole di Jobs), mentre cercano di far sì che il Macintosh, il computer che stanno lanciando, dica “ciao”. Prima di salire sul palco Jobs verrà raggiunto nei camerini dalla ex compagna e dalla figlia, dall’ex socio Steve Wozniak (Seth Rogen) e dal nuovo amministratore delegato John Sculley (Jeff Daniels), che lui stesso ha voluto, in arrivo dalla Pepsi Cola. Al momento di andare in scena con la presentazione del Macintosh c’è uno stacco e, sulle note di Bob Dylan, apprendiamo che il Macintosh è stato un fiasco, e che Jobs è stato fatto fuori – vedremo com’è accaduto nel terzo atto, con una scena degna del “Giulio Cesare” di Shakespeare – dallo stesso Sculley.
Secondo atto: siamo nel 1988, Jobs ha una nuova società, e sta per presentare il Next, un bellissimo oggetto, un computer innovativo, un cubo nero degno del monolite di “2001” di Kubrick. Che però non ha un sistema operativo. Con un altro salto verremo a sapere che quel magnifico oggetto del desiderio non è mai arrivato sul mercato. Ma è servito a Jobs a riprendersi la Apple. «Next è un computer che non è mai nato, era un Cavallo di Troia. Uno strumento di vendetta», riflette Danny Boyle. Nel terzo atto siamo nel 1998 e sta per arrivare sul mercato l’iMac, il bellissimo computer che finalmente darà il successo sperato a Jobs e alla sua Apple. «Il 1998 è l’anno dell’iMac, un prodotto cool», ricorda il regista. «Lo si voleva in casa per poterlo mostrare. Jobs aveva immaginato che un giorno tutti questi dispositivi si sarebbero potuti portare con noi. Oggi lo facciamo tutti. Il telefono ora lo guardiamo sempre prima di andare a dormire. Il 1998 è stato l’ultimo passo prima dell’iPod». E in una conversazione con la figlia, che ha in mano un walkman, Steve Jobs promette di mettere tutta la musica in tasca. È un modo per guardare ancora avanti, alle rivoluzionarie invenzioni di Jobs, iPod e iPhone.
L’umanità del potere
C’è del marcio nella Apple perché siamo in un dramma shakespeariano portato al cinema. E soprattutto perché il lavoro di Sorkin e Boyle non è benevolo con Steve Jobs. Il ritratto che ne esce non è quello di un eroe, ma di una persona piuttosto dura, pronta a mettere da parte chiunque pur di arrivare al successo, un uomo ossessionato dal suo fine. Non a caso il film ha sollevato le proteste dell’attuale A.D. di Apple, Tim Cook, e della moglie di Steve,
Laurene Jobs, che hanno definito falso il film. «La moglie di Jobs è stata ostile e contraria al film» ci conferma Boyle. «Due anni fa ho rifiutato di fare un film per una situazione simile. Stavolta l’ho fatto perché non è stata tradita: le vicende del film avvengono prima che lei incontrasse Steve Jobs, non si parla di lei e dei suoi figli. Steve Jobs vuole avere il controllo su tutti. L’unica cosa su cui non ha avuto il controllo è sul libro che lo racconta, a parte la foto di copertina. Un giornalista prestigioso non avrebbe mai ceduto alla tentazione di scrivere una beatificazione del personaggio. Solo per questo ho potuto fare il film nonostante l’opposizione di Laurene Jobs». A Steve Wozniak, invece, il film è piaciuto. «Steve è stato sul set e ci ha aiutato tantissimo» ricorda Boyle. «Non vuole più parlare di computer e si diverte con trucchi di magia. È la persona più carina del mondo. Non gli è stato riconosciuto di essere bravo».
Lo “Steve Jobs” di Sorkin e Boyle è comunque molto di più di un fedele ritratto di un personaggio pubblico. È un personaggio enorme, larger than life, dalla statura letteraria, e così Fassbender lo interpreta. Una personaggio universale che va anche al di là del vero Jobs, le cui caratteristiche sono state probabilmente accentuate per costruire un villain memorabile. «Steve Jobs ha cambiato il nostro mondo nel bene e nel male» commenta Danny Boyle. «Io sono più vicino alla filosofia di Wozniak, che dice che si può avere del talento senza essere degli stronzi», come sentiamo in una memorabile battuta del film. Wozniak è forse il personaggio che il regista, e anche noi, sentiamo più vicino. Uno che non vuole il successo, né i soldi, ma solo che venga riconosciuto il merito non tanto a lui, ma alla sua squadra, la Apple II. «Le persone che hanno cambiato il mondo spesso hanno avuto persone di cui si sono ascritte i meriti» riflette il regista. «Spesso è un lavoro di squadra». A proposito di meriti, abbiamo chiesto a Boyle se si sentisse il Wozniak di Aaron Sorkin, visto che Steve Jobs è in maniera molto evidente un film firmato Sorkin. «Ha scritto “The Social Network”, l’ho visto ed è un grande lavoro», risponde serenamente il regista di “Trainspotting”. «Sorkin è uno scrittore straordinario. “Steve Jobs” è la storia di un uomo molto deciso, senza pace, un uomo che vede prima di noi il nostro futuro. Per raccontarla ho girato il film in 16 mm, poi in 35 mm e poi in digitale». Aaron Sorkin è lo Shakespeare di oggi, di questa era digitale in cui i potenti non sono i sovrani ma i grandi tycoon delle multinazionali. Grazie a scrittori come lui l’Arte continua a fare il suo compito, raccontare il potere. «È importante fare dei film su i potenti che ci governano» conferma Boyle. «Dimostrano che possiamo ancora parlarne. Steve Jobs non è un santo, è una figura umana. Proprio alla fine del film, compare la sua umanità».