STORIA DI FATMIR, CAMPIONE DI HANDBIKE E DI VITA
Nel libro fotografico di Vittorio Faggiani, un percorso di rinascita e affermazione. Dal Cossovo a Viterbo per ritrovare se stesso in sella ad una bici.
05 Febbraio 2018
Fatmir è un atleta, uno a cui piace mettersi in gioco. Pratica nuoto, hockey e handbike, gli ultimi due a livello agonistico.
Di Fatmir colpisce la serenità e la calma con cui racconta la sua storia. E la risata, un suono fresco, cristallino e amichevole.
Fatmir è anche un lavoratore infaticabile. È impiegato come operaio presso una ditta di Viterbo che produce arredi da bagno, la Stilhaus, da 14 anni. Per riuscire a strappargli un’intervista ci siamo accordati per un orario un po’ scomodo, le 9 di sera: «Perchè sai, tra lavoro e sport non ho troppo tempo libero».
La sua è una storia di vita, una storia di rinascita e di affermazione, come piace definirla a Vittorio Faggiani, autore del libro fotografico «Fatmir», selezionato nel 2017 per la XII Edizione del Concorso Fotografico «Crediamo ai tuoi occhi», sezione «Autoedizione», promosso dal Centro Italiano della Fotografia D’autore di Bibbiena.
40 scatti per raccontare la vita quotidiana di un giovane uomo, e la sua voglia di lottare. Una narrazione fotografica fatta di dettagli e campi ampi capace di far entrare il lettore nel mondo degli affetti, della famiglia e del lavoro di Fatmir, concentrandosi sulla sua unica, grande passione: lo sport.
Quando hai iniziato a praticare sport a livello agonistico?
«Nel 2001 ho avuto un incidente, mi sono trasferito in Italia in un centro di riabilitazione, prima a Cassino e poi a Viterbo. Qui ho conosciuto un amico che mi ha introdotto alle attività della A.S.D. di Volontariato Vitersport Libertas, un’associazione sportiva dilettantistica di volontariato che opera a Viterbo da 35 anni, una delle prime società per lo sport disabili (fisici, mentali e sensoriali) in Italia. Nel 2006 ho iniziato a fare hockey su carrozzina, dal 2009 mi sono cimentato con l’ handbike. Nel 2014 ho scelto di praticare anche il nuoto, ma a livello amatoriale.»
Nel libro c’è una foto che ritrae le tue vittorie, una serie di medaglie appese al muro. A quando risalgono?
«Vediamo… sono tutte legate all’ handbike: nel 2015 ho vinto la prima tappa del Giro d’Italia di Handbike, poi nel 2016 il campionato regionale e nel 2017 sono arrivato terzo al Giro d’Italia. Ora siamo nel 2018 e mi sto allenando per il campionato.»
Insomma, ti piace tenerti impegnato. E il progetto per il libro fotografico? Come è nato?
«Vittorio l’ho conosciuto tramite la squadra di hockey, doveva fare un servizio fotografico di volontariato, voleva raccontare una storia, e ha scelto di raccontare la mia. Era amico del figlio del Presidente dell’associazione ed è venuto a vedere gli allenamenti alla Vitersport, è lì che ci siamo visti per la prima volta.»
Come mai ha scelto te?
«Ha fatto delle foto della squadra, ha visto che ero fotogenico e ha deciso che ero perfetto come soggetto», dice ridendo. «Ci conosciamo da un paio d’anni, e lentamente è nata anche un’amicizia che ha sorpreso entrambi. Non ci aspettavamo di andare così d’accordo.»
Così d’accordo che l’hai invitato a conoscere la tua famiglia in Cossovo?
«Si, siamo partiti ad agosto, quando mi hanno dato le ferie da lavoro. Mia madre e le mie sorelle vivono lì. Lui mi ha fotografato seguendo le mie giornate, mi diceva di non mettermi in posa, non cercava niente di particolare, voleva solo immortalare la mia vita quotidiana, tra Viterbo e Lubiceva. Né io né lui ci aspettavamo che realizzasse un libro.»
La tua vita quotidiana… come la pausa merenda in sella alla tua bici?
« Parli della foto del cappuccino? Ero con un amico, abbiamo l’abitudine di fermarci insieme dopo l’allenamento. Il cappuccino è una tappa obbligata dopo aver faticato per una trentina di chilometri. Ci aiuta a ricaricare le batterie!»
Lo sport però non è tutto, so che sei molto impegnato anche con il tuo lavoro…
«Si, lavoro al 2004 in un’azienda che produce arredi per il bagno, 7 ore al giorno, nel reparto assemblaggio. È un lavoro che non ti annoia, mi trovo bene con i colleghi. Quando ho bisogno mi danno una mano per tirare giù il materiale dagli scaffali più alti.»
Come mai la scelta di trasferirti in Italia?
«Mio padre lavorava a Viterbo, quando è successo. Una sera sono uscito con degli amici in aperta campagna, a Lubiceva. I serbi avevano bruciato le case, giravamo a piedi, non potevamo permetterci macchine o motorini. Avevo 16 anni. Un amico ha litigato con un altro e ci sono andato di mezzo io. Il Cossovo usciva dalla guerra, era normale girare armati. Sono bastati tre proiettili alla schiena e ho smesso di camminare. I medici mi hanno detto che lì non potevano operarmi, non avevano le attrezzature adatte. Mio padre lavorava qui e così ha scelto di portarmi in Italia, ma il midollo non si poteva più operare. Ho deciso di fermarmi in Italia perché l’assistenza sanitaria è migliore, e anche la qualità della vita.»
Non pensi mai di tornare in Cossovo?
«Quando sono arrivato qui sono stato cinque mesi in un centro di riabilitazione a Cassino, poi sette mesi a Viterbo, a Villa Immacolata, ma le cose non andavano bene. Praticamente non parlavo italiano, mi sentivo un po’ isolato, avevo il rammarico per ciò che mi era successo. Poi piano piano ho iniziato a imparare la lingua. Quando sono tornato a Viterbo mi sono inserito bene, ho incontrato delle persone che mi hanno aiutato. Adesso abito qui e non cambierei mai. I miei amici sono come una seconda famiglia. Sono indipendente, uso la macchina, a casa lavo e cucino bene. O almeno, nessuno si è mai lamentato della mia cucina, ma forse non volevano offendermi».
Una risata, tanto sudore e mille sogni da inseguire. Questa è la storia di Fatmir Kruezi, classe 1985, da 14 anni impiegato in una ditta di arredi in Italia, da 9 sfreccia in sella alla sua handbike macinando chilometri. Sette sorelle che lo aspettano a Lubiceva per festeggiare insieme, un caschetto segnato dall’uso e tante medaglie appese al muro a raccontare i suoi traguardi. E poi quel nome, così comune in Cossovo, che la nonna ha scelto per lui: «Fatmir», «Buona Fortuna». Perchè i latini avevano ragione nel dire che la fortuna aiuta solo gli audaci. E i combattenti come Fatmir, che hanno il coraggio di prendere in mano la propria vita per trasformarla in qualcosa di straordinario.
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Vittorio Faggiani
Fatmir
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