DALL’AFRICA AL CARA DI CASTELNUOVO DI PORTO: STORIA DI UNA VOLONTARIA
Rachele, 23 anni, si racconta e soprattutto racconta le storie che le sono rimaste nel cuore: quelle di alcuni ospiti del CARA che è stato di recente "sgomberato"
24 Gennaio 2019
«La notizia della chiusura del centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Nessuno, né i ragazzi del centro né gli operatori e neanche il Comune erano a conoscenza di quello che sarebbe successo e di cosa ne sarebbe stato di quella enorme struttura, che per mesi è stata la casa di centinaia di persone e che da anni si occupa di accogliere migranti», dice Rachele, 23 anni, raccontando la sua storia, la storia di una, volontaria fino a pochi giorni al CARA di Castelnuovo di Porto.
«Non posso negare che il CARA presenti dei problemi, soprattutto per quanto riguarda la qualità della struttura, come peraltro confermato dal sindaco di Castelnuovo di Porto e dagli stessi operatori della cooperativa Auxilium, cui era affidata la gestione del centro. Tuttavia, comunicare la decisione di chiudere il Cara in 24 ore e smobilitare entro 4 giorni più di 300 migranti, mi sembra più una mossa politica dimostrativa che una scelta dotata di una reale efficacia. Ho partecipato alla marcia silenziosa del 22 gennaio, giorno in cui è arrivata la notizia della chiusura e della dislocazione degli ospiti al suo interno in altri centri, ed in quell’occasione, sentendo le loro voci e guardando i loro occhi, ho percepito la paura dell’incertezza, del dover abbandonare le nuove amicizie, del dover ricominciare chissà dove la loro vita, ancora una volta, nonostante avessero già avviato nel territorio un percorso di integrazione che era realmente funzionante. La cosa ancor più triste, però, è che non tutti saranno trasferiti in altri centri, alcuni di loro non avranno più diritto all’accoglienza a causa della nuova normativa in materia di sicurezza e immigrazione e si ritroveranno in strada senza alcuna protezione».
Commenta così la notizia della chiusura della struttura Rachele Nucci, 23 anni, che studia Scienze della Formazione Primaria all’Università Roma Tre per diventare maestra, lavora in un ristorante e ha a cuore tanti impegni come volontaria, fino a pochi giorni fa anche al CARA.
FARE VOLONTARIATO ASSIEME. «I miei genitori mi dicono spesso: chi te lo fa fare. La mia vita è piena di impegni, vivrei certamente le mie giornate con più calma se non facessi così tante attività di volontariato. Ma tutto ciò che faccio mi piace e mi riempie così tanto il cuore che ne vale assolutamente la pena. La bellezza del volontariato è che, in tutto quello che fai, non sei solo. Il pensiero che il gruppo di volontari di cui faccio parte vada a fare servizio quando non posso per motivi universitari o lavorativi, mi provoca dispiacere ma al tempo stesso gioia, perché vedo che vi dedicano passione e impegno. Sono felice di vedere che con questi ragazzi, pur nelle diversità che caratterizzano ciascuno, condividiamo il medesimo modo di vedere le cose».
L’AFRICA. La storia di una volontaria comincia cinque anni fa, quando Rachele faceva catechismo ai bambini e un giorno una ragazza andò a parlare di un progetto in Africa. «Ero molto affascinata da questo continente, le chiesi informazioni su come partire. Sono entrata a far parte del Vol.Est, un gruppo di volontari che rappresentano l’Ufficio Missionario della Diocesi di Porto Santa Rufina. Con loro ho fatto un corso di formazione e, a 18 anni, sono partita per un mese in Malawi. Mi si è aperto un mondo, mi sono detta: la realtà in cui vivo non è l’unica. Spesso ci troviamo a fuggire, a vedere solo quello che vogliamo vedere. L’Africa non ti permette questo, ti mette di fronte prepotentemente a tutta la realtà.Quando sono tornata, ho capito che non c’è bisogno di andare così tanto lontano per trovare qualcuno che ha bisogno di aiuto e di attenzione e di cui, soprattutto, noi abbiamo bisogno».
IL CARA DI CASTELNUOVO. Dopo un anno di riflessione, Rachele decise di fare con il Vol.Est servizio di volontariato al CARA di Castelnuovo di Porto, «anche per abbattere i pregiudizi sull’immigrazione che percepisco da più parti. Sono rimasta incantata: era un posto molto grande, ma rispetto a tutto il mondo è minuscolo, ci trovavo così tante culture che sembrava un piccolo mondo. Si parlavano tantissime lingue, le sfumature di colori erano molto diverse. La prima volta che sono entrata era il 2017, ci sono stata per una settimana. La struttura era fatiscente, non era sicura. Ho creato delle relazioni con alcuni ragazzi, mamme e bambini di tutte le età. Avevano bisogno di raccontare un pezzo della loro storia, anche se con difficoltà legate alla lingua, e abbiamo realizzato dei laboratori. Alla fine ci hanno detto: “grazie mille perché nessuno ci aveva mai dedicato questo tempo”. A noi non costava veramente nulla, per loro sentirci vicino era fondamentale. Dopo quella settimana, abbiamo iniziato ad andare una volta al mese, portando materiale di cartoleria, organizzando un cineforum e altre attività. Le storie che mi hanno raccontato sono strazianti, piene di sofferenza, allo stesso tempo mi hanno di nuovo rimesso di fronte all’evidenza che tutto quello che viviamo è nulla in confronto a quello che loro hanno vissuto per arrivare alla salvezza. Tra le tante persone, ho conosciuto una giovane somala con la figlia di cinque mesi, fuggita dal suo Paese perché la famiglia l’aveva minacciata dopo che era rimasta incinta; scappata con il suo compagno, trattenuto poi nelle prigioni del Kenya, è riuscita ad affrontare il viaggio e ad arrivare in Sicilia, dove dopo 13 giorni ha partorito0187.
IL GRUPPO SERGIO. La storia di una volontaria continua con l’esigenza per Rachele e per un gruppo di ragazzi della parrocchia di San Gregorio VII a Roma, di unire le forze: hanno formato un gruppo che si chiama SerGio: Servire è gioire. Hanno tra i 18 e i 30 anni, si incontrano all’interno della parrocchia e sono dei missionari. «Con questo gruppo abbiamo deciso un paio di anni fa di impegnarci regolarmente, e di avvicinarci anche alla Casa per anziani Cottolengo, che è vicino alla parrocchia che frequentiamo». Nella struttura assistono persone con problemi fisici o mentali, anche con attività semplici, come il karaoke, scenette teatrali, giochi con i versi degli animali. «Si è creata una bellissima relazione: ci accolgono ogni volta a braccia aperte, ci vorrebbero lì ogni giorno».
LA ROMANIA E IL “GELSOMINO”. Sempre con Vol.Est, l’estate scorsa Rachele ha deciso di fare un’esperienza in Romania. Dopo un corso di formazione, è stata per 10 giorni presso l’orfanotrofio di Bacau. «Passavamo tutta la giornata con i bambini, è stata un’esperienza bellissima. I piccoli avevano un rapporto tra di loro più che fraterno, i più grandi stavano con i più piccolini e li aiutavano. L’orfanotrofio era gestito solo da cinque suore e i bambini erano circa sessanta, ci doveva essere per forza cooperazione. Avevano tutti storie difficili, ma avevano trovato una situazione stabile ed una serenità, almeno all’apparenza. Rispetto al mio viaggio in Africa e alla mia esperienza al CARA, dove tutti erano preoccupati ed ignari di ciò che avrebbe riservato loro il futuro, qui ho incontrato persone felici».
Qui a Roma, Rachele svolge servizio anche presso “Il Gelsomino”. All’interno della parrocchia di San Gregorio VII è stata ristrutturata un’ala ed ha avuto avvio un progetto per quattro famiglie di bambini ricoverati all’Ospedale Bambino Gesù. Lei e gli altri volontari fanno accoglienza nella struttura, con turni di giorno o di notte. «Qui non c’è bisogno di fare molto. Si è creata una rete di volontari, l’importante è far sentire a queste famiglie che non sono sole, in quel periodo difficile, mentre i figli sono ricoverati».
LE STORIE NEL CUORE. In tutto questo, la cosa più bella per Rachele è il portarsi nel cuore le storie, alcune in particolare. Una storia riguarda una famiglia egiziana di 4 persone, composta da genitori e due figli adolescenti. Erano benestanti, avevano una gioielleria, ma essendo cattolici in un paese musulmano iniziarono ad essere minacciati. «All’inizio prelevarono l’oro con i simboli cristiani cattolici, impedendo loro di riprodurli. Ma loro erano perseveranti: non so quanti avrebbero continuato come loro a lavorare lo stesso, anche pesantemente minacciati. Alla fine sono entrati nella loro casa, hanno sbattuto al muro la madre con una violenza tale che è entrata in coma, e hanno ferito la figlia. Allora si sono convinti ad andare via, ma lo Stato non ha concesso i documenti, a causa della loro religione. Gli hanno bruciato il negozio e quindi sono rimasti anche senza la casa, che era al piano di sopra. Sono scappati e sono arrivati illegalmente in Italia illegalmente, dove sono stati ospitati al CARA. Per fortuna dopo 2-3 mesi hanno trovato una casa».
Un altro incontro che ha un posto particolare nel cuore di Rachele è con un bambino pakistano. «La prima volta che andammo al CARA lo incontrammo: era molto timido. Abbiamo poi scoperto che suo padre era riuscito a venire in Italia portando con sé solamente lui, di quattro figli che aveva. Il piccolo era in Italia solo con il papà, senza nessuno dei suoi fratelli e senza la mamma, che purtroppo era venuta a mancare. Con il tempo abbiamo notato un enorme cambiamento, il piccolo crescendo e cominciando a vederci con più continuità si era affezionato a noi, era felice di giocare e condividere il tempo insieme. Papà e figlio si sono dati molta forza a vicenda durante la loro permanenza nel centro. Ora sono stati spostati in una struttura per avere un’intimità familiare che il grande centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto non poteva fornirgli. Speriamo che i due possano ricongiungersi al più presto con il resto della famiglia, per ora sono felici di stare insieme».
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Una risposta a “DALL’AFRICA AL CARA DI CASTELNUOVO DI PORTO: STORIA DI UNA VOLONTARIA”
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