SULLA MIA PELLE: LA STORIA DI STEFANO CUCCHI IN UN FILM
Alessio Cremonini racconta il suo film, da oggi al cinema e su Netflix. Da vedere, perché le morti in carcere restano troppe
12 Settembre 2018
«Non è accettabile, da un punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia non per cause naturali mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello stato». Sono le parole di Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, sul caso Cucchi. Forse le parole più significative, più chiare per capire cosa rappresenti il caso di Stefano Cucchi, tragedia personale, ma anche paradigmatica di una condizione che da anni vivono le nostre carceri. Che è diventata un film, Sulla mia pelle, diretto da Alessio Cremonini, con un Alessandro Borghi mimetico e impressionante nei panni della vittima. Presentato a Orizzonti al recente Festival del cinema di Venezia, il film esce oggi, 12 settembre, nelle sale ed è disponibile anche su Netflix.
Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre 2009. È il decesso in carcere numero 148 di quell’anno. Al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiungerà l’incredibile quota di 176: in due mesi sono trenta morti in più. In quei sette giorni che vanno dall’arresto alla morte, Stefano Cucchi viene a contatto con 140 persone: carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri. Nessuno capisce cosa sta vivendo. È da queste cifre che parte il ragionamento di Alessio Cremonini, e nasce il bisogno di fare questo film.
Nelle note di regia dice di essere rimasto impressionato dai numeri…
Sono rimasto impressionato soprattutto dal fatto che nei due mesi seguenti la morte di Cucchi ce ne sono stati altri trenta: quasi un giorno sì e un giorno no c’era un morto in carcere. La spinta a girare il film è stata anche la storia di Cucchi, una crudele summa di tutte le stazioni della via crucis di chi muore per cause di questo tipo, tutti i luoghi dove è amministrata la giustizia: la strada, l’interrogatorio e la ritenzione nella cella dei carabinieri, le celle del tribunale, il penitenziario, l’ospedale, il carcere ospedaliero; è un atroce bignami di quello che è successo in altri casi. La sua storia è crudele, ed è anche durata sette giorni. Un film più che dare risposte – quelle ha l’obbligo di darle la magistratura – deve porre domande. E la domanda è come mai 140 persone non si siano accorte, per usare un eufemismo, delle condizioni in cui versava Stefano Cucchi…
Prima di lavorarci cosa sapeva della situazione delle carceri? E del caso Cucchi?
Come primo lavoro, prima che il regista faccio il cittadino, e cerco di interessarmi delle cose. Per quanto riguarda la giustizia, mi sembra che abbia pochi fondi, pochi mezzi e che sia abbandonata da noi italiani. È un problema sia per chi lavora in quelle istituzioni, sia per chi è detenuto, o chi è in attesa di processo, e quindi teoricamente innocente. E non è per colpa del sistema stesso ma per colpa di noi italiani che gli diamo pochi fondi e poca attenzione. L’immagine di Enzo Tortora, innocente che aveva subito un atroce calvario in carcere, era rientrato in tv, a Portobello, ma era scomparso poco dopo per un tumore, è rimasta impressa in tutti quelli della nostra generazione (Cremonini è un classe 1973, ndr). Che a volte ci siano anche degli innocenti nelle mani della giustizia questo lo sappiamo, è inevitabile. E di Cucchi sapevo un po’ di cose. E mi sono messo a studiare 10mila pagine di atti processuali, cosa che ti porta a scoprirne tante altre.
Come è stato affrontare gli atti del processo? Ci sono state altre difficoltà?
Sono serviti tanta pazienza – una cosa che accomuna tantissimi lavori – e tanto desiderio di studiare. Devi incrociare le diverse deposizioni e capire dove vanno. Lo abbiamo fatto con un approccio senza pregiudizi. Quando ho fatto fare le fotocopie le ho ritrovate raccolte in risme che, una sopra l’altra, raggiungevano l’altezza di un metro e novanta. Si tratta di studiare e di cercare di tornare indietro se ti fai un’opinione e poi ti accorgi che quell’opinione era sbagliata. Con la sceneggiatrice Lisa Nur Sultan non ci siamo messi mai nella posizione di giudici: il film non è un’aula di giustizia ma un racconto. Il nostro obiettivo era quello di essere il più precisi possibile, ma raccontare, mettere in scena quel calvario. Quando fai un film tendi a fare questo, a raccontare umanamente una persona.
A volte leggevamo le deposizioni, e magari quello che non era interessante dal punto di vista della magistratura, per noi lo era dal punto di vista umano, apriva uno squarcio su un’atmosfera. Non abbiamo avuto ostacoli, è stato un progetto fortunato: la prima produttrice con cui abbiamo parlato, Olivia Musini, con il padre Luigi Musini, ha deciso subito di fare il film. Con grande sensibilità e intelligenza poi hanno cercato altri compagni di viaggio, prima Lucky Red e poi Netflix.
Qual è stato l’apporto della famiglia Cucchi? E quali le reazioni di fronte a Sulla Mia pelle?
Abbiamo avuto l’interesse di intervistare i genitori, che sono stati molto gentili. Abbiamo parlato e abbiamo visto la loro casa, dove è avvenuta la perquisizione di Stefano dopo l’arresto. Abbiamo parlato ovviamente di più con la sorella Ilaria, che non è entrata, e non l’avrebbe mai voluto, nella realizzazione del film. Lo abbiamo fatto vedere a lei e Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Cucchi. Al di là dell’emozione e della commozione, erano molto felici e hanno detto ad Alessandro Borghi di aver fatto un lavoro incredibile di mimesi, anche nella voce. E questo è evidente nel film, dove c’è un momento in cui si sente la voce di Cucchi. Credo che i genitori lo vedranno in maniera più intima.
Avete deciso di eliminare ogni aspetto di voyeurismo: ad esempio, non avete fatto vedere le immagini del pestaggio…
Non si voleva fare un film morboso. Nei momenti in cui si andava verso il decesso di Stefano, e la sua sofferenza, nell’interpretazione di Alessandro, era più evidente, ho voluto fare dei campi lunghi, lasciare dei silenzi. Dovendo raccontare una morte vera c’è una certa pudicizia, che non ha raggelato il film, ma lo ha reso struggente. Non volevo fare una sorta di “pornografia”. Per quanto riguarda il pestaggio, cosa è successo ce lo diranno i giudici. E penso che una porta chiusa possa dire molto di più, come ci insegna Hitchcock: a volte non raccontare racconta molto di più.
In Sulla mia Pelle avete voluto ridare vita a Cucchi, bloccato in quelle immagini sul lettino dell’autopsia…
Quell’immagine è uno strano sudario, una sindone laica. Quando c’è qualcuno che muore e c’è un processo l’unico che non può parlare è chi è morto. E allora abbiamo voluto ridare la parola a Cucchi, mostrare quei sette giorni in cui la parola gli è stata tolta. L’unica certezza è questa: è entrato vivo nelle mani dello Stato, e ne è uscito cadavere. Il cinema è movimento, e noi abbiamo ridato movimento a Cucchi. Leggendo un verbale, o un articolo, non vedi cosa è successo. Vedere invece è importante, ha un impatto diverso: vedere Alessandro Borghi pestato è più forte che leggere di Stefano Cucchi pestato. Capisci di più la sofferenza. Abbiamo cercato di farlo, di non essere morbosi, di essere precisi e umani.
Che idea si è fatto di questo problema, dov’è che si inceppa l’ingranaggio della giustizia?
È quasi un programma politico. O lo dovrebbe essere. Ma vedo che ci si concentra su altro. Invece è qualcosa, come ci insegna Tortora, che ci riguarda tutti. Occuparcene dovrebbe essere una forma di autotutela. Dovremmo preoccuparci tutti di più, credo che il nostro paese sia colpevole. Persone come Marco Pannella e Papa Wojtyla hanno fatto molte battaglie per la questione della giustizia, al di là di tutte le altre organizzazioni. Ma quando lo fa un Papa vuol dire che c’è un’emergenza. Evidentemente la classifichiamo come un problema relativo. Quando accade qualcosa di simile si tratta ovviamente di tante eccezioni, tanti casi che non sono la maggioranza delle forze dell’ordine, ma sono casi terribili. Ma di questo siamo colpevoli noi italiani.
Un caso come questo ha mosso qualcosa, o la situazione nelle carceri è sempre la stessa?
Ho rivisto le statistiche qualche giorno fa e la media è di circa di 150 persone morte in carcere all’anno. Non sono tutte morte in maniera violenta, ma alcune sì. Alcuni muoiono per suicidio, altri per malattia, però condizioni sanitarie non ideali contribuiscono. Ma quelli delle morti in carcere rimangono numeri pazzeschi.