SVILUPPO LOCALE: POSSIBILE SOLO COINVOLGENDO I TERRITORI
Partecipazione, coesione, ascolto delle piccole voci e uno Stato pronto a destabilizzare. Intervista con Fabrizio Barca, promotore della Strategia Nazionale Aree Interne
di Redazione
07 Luglio 2017
La Strategia Nazionale Aree interne viene lanciata nel 2015 quale strumento di sviluppo locale, per rilanciare quelle zone del Paese più lontane dai grandi centri urbani e, negli ultimi anni, in profonda crisi. Proponiamo l’intervista all’ex ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca pubblicata sul numero 1/2017 di VDossier, dedicato proprio ai processi di sviluppo territoriale.
Per innescare veri processi di sviluppo territoriale, bisogna cambiare radicalmente modo di progettare, ripartendo dalla coesione sociale e dal coinvolgimenti reale dei cittadini.
Ne è convinto Fabrizio Barca, ex ministro per la Coesione Territoriale, nonché promotore della Strategia Nazionale Aree Interne, lanciata nel 2015 con l’obiettivo di rilanciare le zone del Paese più distanti dai grandi centri urbani che, negli ultimi anni, sono apparse profondamente in crisi, anche perché segnate dallo spopolamento.
Si tratta di quasi un terzo del territorio nazionale (circa il 31 per cento): per definizione sono quelle lontane più di 40 minuti (talora più di 80) da centri abitati, che offrono un sistema completo di servizi di base come scuola, salute e mobilità e dove vive circa il 7,6 per cento della popolazione italiana (4 milioni e mezzo di cittadini).
A che punto siamo con la Strategia Nazionale Aree Interne?
«La logica del Progetto per le Aree Interne è quella di non fare progetti estemporanei – se ne sono già fatti tanti nel nostro Paese – ma di prendere di petto, in maniera permanente, gli ostacoli che in questi territori rendono la vita pesante e difficile e che spiegano l’abbandono demografico.
Da un lato, quindi, il peggioramento dei servizi fondamentali – scuola, salute, mobilità – e dall’altro la mancanza di capacità di liberare forze innovative, che consentirebbero di valorizzare meglio questi territori.
In passato sono stati spesi molti soldi, per fare cose che non hanno lasciato il segno: al massimo hanno rallentato la caduta, ma non cambiato la curva. La strategia adottata dal progetto, secondo il modello di sviluppo innovativo che in Europa chiamiamo place based, è stata di evitare che si tirassero fuori dal cassetto progetti già pronti e facilmente cantierabili, e di impostare invece un processo per cui ogni area si è interrogata sul proprio futuro (di che cosa e come vivremo tra vent’anni?) e poi ha dato la parola alle persone, invitando ai tavoli e ascoltando i soggetti rilevanti, che hanno liberato
idee e proposte, che spesso già c’erano, ma erano tenute in disparte.
Un gruppo di una ventina di aree ha lavorato su questo per due anni, e ora otto o nove sono arrivate in porto, comprese due del Sud».
Arrivate in porto, che cosa vuol dire?
«Hanno redatto una strategia, a partire dalla risposta alla domanda “dove vogliamo andare”. Domanda al plurale, perché il percorso non ha riguardato singoli Comuni, ma alleanze permanenti tra Comuni, mediamente 15, ognuno con un bacino di 30mila
abitanti.
È cambiata la sequenza: prima hanno risposto alla domanda, e quindi hanno elaborato una visione, poi hanno messo a fuoco
i risultati attesi, e solo alla fine hanno deciso le azioni necessarie per raggiungere questi risultati.
Questo modo di lavorare segna la differenza con tanti altri tentativi fatti prima: i territori sono stati messi al centro, i Ministeri hanno discusso le proprie politiche con i territori…
Tutto questo ha determinato un cambiamento culturale: in attesa che partano i progetti, sono già cambiati i modi di fare le cose che già si facevano. Il segno vero dell’innovazione sta nel cambiamento delle teste».
Fanno parte delle aree interne anche le zone terremotate. Alcuni si sono chiesti se valeva la pena di ricostruire – secondo lo slogan “tutto com’era e dov’era” – in territori già così in crisi.
«In tutti i terremoti di tutte le aree italiane il “dov’era, com’era” si è posto sempre in termini elastici. I cittadini della Campania o di Gemona hanno ricostruito non dov’era, ma a pochi chilometri di distanza. Mai nella storia italiana un popolo ha deciso di abbandonare le terre, invece a volte ha deciso di ricostruire a una certa distanza.
È successo anche nel Belice, in Sicilia. Il tema quindi è se ricostruire nello stesso modo o se farlo diversamente, riorganizzando il territorio. Forse, invece di ricostruire varie scuole, se ne può fare una, ma di qualità e di alto livello pedagogico, contornata da un efficiente servizio scolastico di accompagnamento. Al’Aquila alcuni quartieri erano
brutti: vanno ricostruiti come erano, oppure si può abbandonare quell’area e ricostruire un po’ più in là? Questo tipo di decisioni sono importanti e la storia dimostra che è fondamentale che i cittadini siano coinvolti, come fu nel Friuli Venezia Giulia e anche in Irpinia e come invece non è successo, nella fase iniziale, in occasione del terremoto aquilano.
Nel caso particolare delle quattro aree colpite dagli ultimi terremoti, ce ne sono due, quella abruzzese e quella marchigiana, che sono molto vicine al mare: venti minuti di distanza può significare un forte rischio di abbandono
del territorio alto, e quindi il rischio di una caduta demografica e quindi di un abbandono è più forte che altrove.
Proprio per questo il Governo ha deciso di utilizzare anche lì l’esperienza di Aree Interne: il team sta lavorando proprio attorno a questi temi: la scuola, prima di tutto (dove farla? qual è il tipo di secondaria che davvero serve?…); la tenuta della zootecnia, dopo la moria di animali legata al terremoto prima, alla neve poi, con la conseguente tentazione di abbandonare le attività produttive, che invece vanno riprese e rinforzate; i flussi turistici, che in queste aree sono sempre stati deboli, ma non inesistenti, per cui il terremoto deve essere occasione per cambiare la modalità di offerta turistica.
Esattamente come si fa da ogni altra parte, ma con una differenza enorme: io dico sempre che lo Stato centrale deve destabilizzare il vecchio ordine, che non è stato capace di portare innovazione.
E in una seconda fase deve ristabilizzare: non può lasciare il caos, ma deve aiutare a fare le scelte e in alcuni casi a rinnovare la classe dirigente.
Nel caso delle aree terremotate la destabilizzazione, la pars destruens, è già avvenuta e in modo molto drammatico, a causa del terremoto. Questi eventi, come la guerra o le epidemie, sono brutali e quindi creano disagio, fragilità psicologica
e sociale. Lo Stato ne deve tenere conto, nella fase costruttiva, e deve essere molto attento e garbato nel rapporto con i cittadini».
Coesione sociale: che cosa è e come interseca questo modo di lavorare sui territori?
«Il concetto di coesione sociale – ma anche territoriale ed economica – è stato valorizzato dall’Unione Europea e ha un ruolo importante nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 174), che richiede “interventi speciali” per promuovere uno “sviluppo armonico”.
Affermazioni nelle quali risuona la nostra Costituzione, che all’art. 3 invita a “rimuovere gli squilibri economici e sociali”. Oggi, facendo confusione, si considera la coesione come un obiettivo, quando invece è uno strumento: l’obiettivo infatti è quello dell’inclusione sociale, cioè quello di assicurare, seguendo il modo di ragionare di
Amartya Sen, a ogni persona la libertà sostanziale, o meglio sostenibile.
Di garantire quindi la possibilità di vivere tutte le dimensioni della propria vita: un reddito non troppo più basso rispetto a quello degli altri, ma anche la scuola e l’istruzione, il trattamento della persona, la libertà di camminare per strada… La coesione è l’identificazione di ognuno di noi con tutti gli altri. Un concetto molto più forte di quello di solidarietà:la solidarietà è un atto che arriva dopo, che si aggiunge al nostro essere individuale e che ci spinge a dare qualcosa agli altri. Coesione vuol dire invece che gli altri sono parte di te, avvertire che la loro sconfitta è la tua sconfitta, è la sconfitta della tua cultura,della tua comunità. Per questo il termine “coesione” si riferisce alla densità delle relazioni umane, ma anche al metodo con cui si persegue lo sviluppo, quello sviluppo che fa crescere le relazioni: il metodo del confronto fra tutti i soggetti, della costruzione di coalizioni orizzontali – fra Comuni, imprese, cittadini organizzati – e verticali».
Quindi un processo di sviluppo del territorio come lei l’ha descritto, presuppone che ci sia già coesione sociale, oppure la costruisce?
«È ovvio che è molto meglio se c’è già una robusta coesione sociale, ma non c’è quasi luogo in Italia – soprattutto nelle aree interne, che sono molto comunitaristiche – che non abbia almeno brandelli di coesione, di sentire comune.
La politica può fare moltissimo per valorizzarli, ad esempio facendo sì che le persone non si vergognino, perché – parliamoci con franchezza – la cultura neoliberale ha esaltato non la persona, ma l’individuo, in una visione mondomensionale.
Sappiamo che l’individuo è egoista – non facciamo sogni di buonismo e altruismo – ma è anche molto coeso con gli altri. Come diceva Amartya Sen, siamo sia buoni che cattivi, salvo i gesucristi e i diavoli.
Il punto è tirare fuori quella parte di noi che è felice quando lavora con gli altri. Questo è uno dei compiti del policy maker esterno. Noi queste basi le abbiamo trovate, sia pure in misure molto diverse: i limiti che su alcuni territori stiamo trovando derivano anche da questo.
Per esempio, abbiamo osservato che forse i risultati parzialmente positivi che abbiamo raggiunto nelle Madonie, in Sicilia, derivavano dalla natura particolare del marchesato dei Ventimiglia, che era aperto e non aveva ghettizzato i dintorni.
Storicamente quel territorio ha avuto due caratteristiche: le persone si sono mescolate, anche attraverso i matrimoni, e si sono sviluppati sistemi di usi civici del territorio, che si sono mantenuti nella fase di superamento del feudalesimo.
Perciò era normale condividere i beni comuni ed è ovvio che in un contesto del genere si lavora meglio. Questo non significa che, dove non c’è stata una forte coesione sociale, non si possa costruire, se si lavora sui frammenti che ci sono».
Ha accennato al ruolo dello Stato, dicendo che deve destabilizzare. Che cosa significa, e qual è il ruolo degli enti locali?
«Gli enti locali devono essere i proprietari dei processi. Questo non sempre è successo, ad esempio non lo erano nei Patti territoriali, che pure sono stati esperienze interessanti in alcune aree del Sud.
Venivano costituite agenzie ad hoc, che in qualche modo sostituivano i rappresentanti eletti dal popolo. Anche perché i Comuni non avevano soldi. Noi riteniamo che questa modalità sia sbagliata. In una democrazia elettiva gli eletti, anche se non ci piacciono, anche se hanno fatto scelte sbagliate, anche se appartengono a una classe dirigente chiusa devono avere una responsabilità nei processi.
Però serve, che dall’esterno un soggetto “benevolo” rompa le incrostazioni, ad esempio facendo saltare l’idea che i soldi possono essere utilizzati per i propri interessi. Questo soggetto benevolo è lo Stato, che può dettare delle regole: ti do il potere, se tu giochi una partita aperta e ammetti al tavolo tutti, non solo quelli che hai sempre intermediato.
Si possono dettare condizioni che permettano a politici e Amministratori di cambiare linea».
Lo Stato giocherà questo ruolo?
«Come è successo in passato, lo Stato potrebbe avere un interesse collusivo con gli Enti locali: io ti do i soldi e tu, quando è il momento, mi fai avere i voti. Questo scambio ha retto buona parte delle politiche per le aree interne e per il Sud. Se questa è la logica, cambiare non conviene a nessuno: agli Enti locali rimane il controllo dei processi, lo Stato
ci mette i soldi e ne ricava voti.
Lo scambio è improprio, ma spiega perché fino ad adesso non è cambiato nulla: in fondo è meglio se questi territori non crescono, per poter continuare questo gioco.
Per fortuna lo Stato a volte è un animale strano, che può reagire diversamente, soprattutto quando le cose vanno molto male – e in Italia vanno molto male, visto che dal 2008 la produttività non cresce, queste aree hanno un crollo demografico enorme e soprattutto la crisi di queste aree ha avuto effetti devastati sulle aree ricche.
Un esempio evidente è la Liguria, dove è palese il costo sociale per la città della devastazione delle aree interne. Quando la nazione comincia ad avvertire questo costo sociale e in più – e questo è un fatto positivo – avverte l’interesse mondiale per le proprie aree interne (la domanda capitalistica di diversità, di un turismo diverso, di prodotti alimentari non sofisticati, del recupero di specie e prodotti che rischiano di estinguersi…), quando quindi si vede la convenienza dello sviluppo del territorio, allora tutti, anche lo Stato, possono decidere di giocare una partita virtuosa.
Oggi il Comitato Tecnico Aree Interne ha un forte mandato ad agire in modo benevolo da parte dello Stato centrale».
La società civile organizzata, che ruolo gioca in tutto questo?
«Quando esiste uno stato poroso e benevolo, si apre la possibilità di giocare la partita negli spazi che esso stesso costruisce. In questo caso costruisce luogo per luogo – quindi non il “tavolo verde” di Palazzo Chigi – degli spazi dove si discute davvero che cosa fare. Noi abbiamo molte organizzazioni che collaborano, proprio perché sentono che sono tavoli veri e che non perdono tempo. Quando invece queste organizzazioni si trovano davanti a uno Stato chiuso, che fa solo chiacchiere o neanche quelle, perché è autoritario o si illude che si possano cambiare le cose con decisioni prese da esperti calati dall’alto, allora le organizzazioni della cittadinanza devono costruirsi da sole gli spazi, spesso in modo antagonista».
Ha parlato di invitare ai tavoli i “soggetti rilevanti”. Le organizzazioni della società civile hanno ruoli di rappresentanza, non bastano?
«Quando queste organizzazioni non comprendono che questi luoghi sono luoghi di coagulo, confronto, piattaforma di conoscenze, elaborazione di elementi comuni e anche raccolta di finanziamenti, e scatta la voglia e forse l’illusione della rappresentanza, diventano cattivi partiti, anche peggio dei partiti, perché un partito rappresenta tanti interessi, è sottoposto al voto, è costretto a cercare mediazioni e punti di coagulo tra uguaglianza e crescita, mentre queste organizzazioni sono monotematiche. Portano un punto di vista – ed è bene che sia portato, perché tra l’altro in questo momento i partiti sono assenti – ma dovrebbero essere consapevoli dei proprio limiti.
I Tavoli se li devono conquistare, ma soprattutto devono accettare che siano aperti a coloro che essi rappresentano, cioè alle persone in carne e ossa, che portano esperienze ed istanze. Lo dice in modo preciso anche la Commissione Europea nel Codice europeo di Condotta, che non si rivolge solo alle organizzazioni della cittadinanza, ma a tutti: ai tavoli devono stare non solo i soggetti rappresentanti, ma tutti i soggetti rilevanti».
È una forma di disintermediazione anche questa.
«Le organizzazioni sindacali e quelle delle imprese hanno paventato il rischio di essere disintermediate.
La risposta, che ho sempre dato loro, è che si tratta di una sfida a portare nei tavoli il punto di vista di chi è davvero
coinvolto. La sfida è di alzare il livello della presenza: se questa è molto alta, i soggetti rilevanti sentiranno, capiranno che vale la pena dare fiducia, anche nel processo partenariale. In democrazia, i soggetti intermedi sono necessari, ma quando parlano a proprio nome, perdono di significato. Vale la pena ascoltare le “piccole” voci, che a volte sono molto ricche e significative».
In copertina una veduta di Alatri (FR). Immagine di Megalos Alexandros