Togli il Terzo settore, crolla il welfare
I dati del rapporto "Salvare il sociale" del Censis parlano chiaro: servono fondi, serve un modo sano di amministrare, serve qualità
25 Giugno 2015
Il pubblico restringe i servizi che offre, il privato sociale si allarga e tappa i buchi. Già lo si sapeva, ma guardare le cifre fa un po’ impressione. E pone alcuni problemi.
Il dati, provenienti da diverse fonti, li ha raccolti il Censis nel rapporto che ha presentato il 24 giugno, intitolato “Salvare il sociale”.
Dove vanno i fondi
Il dato di partenza è il calo delle risorse pubbliche: il Fondo per le politiche sociali è passato da 1,6 miliardi di euro nel 2007 a soli 43,7 milioni nel 2012, recuperando in piccolissima parte nel 2014 ( 297,4 milioni). In sostanza, tra 2007 e 2017 c’è stata una riduzione dell’81%. Parallelamente, il Fondo per la non autosufficienza è passato dai 400 milioni di euro del 2010 al totale annullamento nel 2012, per poi risalire a 350 milioni nell’ultimo anno.
I fondi però non sono distribuiti in modo omogeneo nel Paese, perché molto dipende dalle amministrazioni locali. Il gap tra Nord e Sud è semplicemente clamoroso. Se a Trento la spesa è di 282,5 euro per abitante, in Calabria si scende a meno di 26 euro. Il Lazio si barcamena nel mezzo, spendendo 153 euro per abitante. In generale, gran parte delle regioni del Centro-Nord si colloca al di sopra della media nazionale, mentre nel Sud la spesa media pro-capite ammonta a meno di un terzo (50 euro) di quella del Nord-Est (159 euro). nel Sud le risorse proprie dei Comuni coprono meno della metà delle spese per il welfare locale, a fronte di una media nazionale del 62,5%. Di conseguenza, i tagli ai trasferimenti statali hanno un impatto ancora più drammatico.
A cosa servono i soldi dei Comuni? Complessivamente, la spesa sociale dei Comuni supera i 7 miliardi di euro l’anno (116 euro per abitante), che sono destinati per il 39% a garantire interventi e servizi, per il 34% al funzionamento delle strutture, per il 267% ai trasferimenti in denaro. La maggior parte dei fondi sono spesi per le famiglie e i minori (40%), in seconda battuta per i disabili (23%), cui seguono gli anziani (20%), i poveri e i senza fissa dimora (8%).
Ma, proprio per quanto detto sopra, se in Italia la spesa media per un disabile è di 2.886 euro l’anno, al Sud scende a 777, mentre nel Nord-Est sale a 5.370.
Le fragilità del sistema
In questo contesto, è evidente che volontariato e non profit, oltre alle famiglie, rappresentano una fetta sempre più ampia del welfare italiano. In alcuni ambiti è assolutamente indispensabile: nei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, il 40% dei posti letto è non profit, nel campo degli hospice, il 21% è gestito dal Terzo settore.
Insomma, il non profit è il terzo pilastro indispensabile, ma con non pochi segni di fragilità.
Ad esempio, perché è una realtà frammentata, quasi pulviscolare, e distribuita in modo ineguale nelle varie aree del paese. Dove ce n’è più bisogno (il Sud), ce n’è di meno. Per rendere l’idea: le istituzioni non profit sono 104 ogni 10.000 abitanti in Valle d’Aosta, 43 nel Lazio, che si colloca piuttosto in basso nella classifica, ma solo 25 in Campania.
Comunque, lavorano in forte “sinergia” con la dimensione pubblica. O, almeno, ricevono finanziamenti e stipulano convenzioni. Chi presta servizi nell’ambito sanitario, dell’assistenza sociale utilizza risorse che vengono dal pubblico per il 68,3%, nell’ambito della protezione civile la percentuale è del 56,5%. Il non profit che lavora in altri settori riceve finanziamenti in media del 34%, molti meno, quindi.
Insomma, dice il rapporto, «i dati economici testimoniano di un rapporto strutturato tra servizi garantiti dal privato e finanziamento pubblico, che mostra come essi rappresentino indubbiamente una parte sostanziale e non accessoria del sistema di offerta sociosanitaria e socio-assistenziale del nostro paese».
Eppure, anche qui si annidano fragilità. Le condizioni in cui il non profit opera cambiano da territorio a territorio, dal Comune a Comune. Spesso sono incerte, e non offrono prospettive sul futuro. Il sistema delle convenzioni premia chi fa risparmiare, non i servizi migliori.
Nonostante questo, esiste «una specie di informalità diffusa, che rende possibile al soggetto pubblico di trovare il mezzo per risparmiare sulle risorse allocate innescando una concorrenza al ribasso tra le cooperative sociali, senza l’adeguata attenzione alle differenze nelle specializzazioni, nella competenza del personale impiegato, nella qualità dei servizi resi».
Tant’è vero che, ha detto Ketty Vaccaro, responsabile area Welfare e salute del Censis, «esistono ormai i professionisti delle convenzioni, mentre restano fuori realtà che potrebbero garantire qualità. Il criterio che predomina è quello dell’ousourcing al ribasso».