GUERRA IN UCRAINA: SE L’INFORMAZIONE È VITTIMA E CARNEFICE
La copertura giornalistica della guerra è inadeguata. Ha scelto la via delle emozioni, ha rinunciato al senso critico e confuso la cronaca con il tifo. Di guerra e informazione si è parlato in un incontro organizzato da Archivio Disarmo
23 Febbraio 2023
In guerra le bugie sono uno strumento fondamentale. In questo senso, geroglifici del 1274 avanti Cristo sulla battaglia di Kadesh – primo documento scritto della storia dell’umanità – raccontano di una straordinaria vittoria del faraone Ramses II sugli Ittiti. Che, a quanto pare, non fu tale. Ma Ramses II, evidentemente, aveva bisogno di far sapere che aveva vinto. È un curioso esempio di quella che può essere l’informazione di guerra, un ghiaccio sottilissimo dove è facilissimo cadere, che ha raccontato Giampaolo Cadalanu, a lungo inviato di guerra di Repubblica, durante un illuminante incontro. Si tratta del seminario Ucraina: guerra e informazione, che si è tenuto lo scorso 22 febbraio, a un anno dall’inizio del conflitto, a Roma, nella sede di Archivio Disarmo, organizzatore dell’incontro. A partecipare, insieme a Cadalanu, Gianandrea Gaiani, Direttore Responsabile di Analisi Difesa, Nico Piro, del Tg3 Rai e Maurizio Simoncelli, Vicepresidente di Archivio Disarmo. Come ha spiegato nella sua introduzione al seminario Ucraina: guerra e informazione Fabrizio Battistelli, Presidente di Archivio Disarmo, oggi l’informazione è assurta a elemento decisivo delle decisioni dei governi e della vita delle persone, ancor di più quando di parla di un conflitto. È così da sempre, lo è ancora di più da quando esistono giornali e fotografie, pensiamo alla famosa foto con la bandiera americana piantata a Iwo Jima, in Giappone, nella Seconda Guerra Mondiale. Oggi gran parte di un conflitto viene spesso giocato nelle redazioni dei giornali e delle emittenti televisive. «È una situazione nella quale c’è una sorta di patto non scritto tra i vari attori in gioco, nel quadro nazionale, che fra di loro hanno raggiunto capovolgimento dei ruoli per cui coloro che hanno competenza spesso non possono parlare e quelli che possono parlare non hanno competenza» ha spiegato nella sua introduzione Fabrizio Battistelli. «Ognuno di noi può verificare questo nei vari talk show, in cui gli ospiti sono unificati dalla scarsa competenza nei temi in cui sono chiamati a parlare. Coloro che, potendo parlare per competenza, non sono invitati a parlare, non lo fanno perché sono servitori dello Stato; diplomatici, militari. È il sale della democrazia costituzionale: i tecnici non devono far altro che eseguire quello che dice il governo. Il governo dovrebbe anche ascoltarli, e non assumere decisioni solo politiche. In questo scenario domina totalmente la politica. Che, nel momento in cui decide, evita totalmente di ascoltare chi ha competenza, i ricercatori, i giornalisti, figure diverse fra di loro, che però hanno un’idea dell’oggetto di cui stanno parlando. Chi parla di tutto senza averne un’idea sono gli opinionisti».
La guerra è tutto tranne che romantica
«La copertura giornalistica della guerra, a un anno dalla partenza, è inadeguato, insufficiente» esordisce nel suo intervento Giampaolo Cadalanu. «Non solo per avere notizie complete, ma soprattutto per capire quello che sta succedendo. Dal primo momento non ci sono piaciuti i toni del racconto: raccontare una guerra solo in termini di emozioni vuol dire fare una scelta di campo molto precisa». Nessuno chiede di trovare l’equidistanza, ma almeno di trovare punti di vista diversi, anche dai nostri valori. «Sta succedendo soltanto un’aggressione selvaggia, da una parte una schiera di belve sanguinanti e dall’altra una di eroi resistenti?» si domanda Cadalanu. «Si tratta di chiedersi perché succedono le cose. Ai giornalisti freelance, al fronte senza assicurazione e pagati pochissimo, spesso viene detto di sottolineare un aspetto, che vuol dire che la redazione si aspetta un certo tipo di racconto. Ma non basta il racconto dei freelance. Le redazioni avevano qualcuno che, nel frattempo, studiava il tema, leggeva i libri. Non ci sono più. In televisione gli esperti vengono considerati noiosi. Resta la possibilità di raccontare visioni romantiche della guerra, ma sappiamo che la guerra è tutto tranne che romantica. La responsabilità dei giornalisti è anche quella di costruire un’opinione pubblica che influenzi i politici. La responsabilità è anche ricordare a chi prende le decisioni che dovrebbe tutelare prima di tutto la sopravvivenza della comunità che rappresenta, e non soltanto determinati valori che, non si sa perché, dovrebbero contare più della vita stessa delle persone che vengono mandare in guerra. È importante che partiamo dal fatto che la guerra è il male assoluto».
Ma un altro segno dei tempi e della situazione che sta vivendo la comunicazione sono i sondaggi. «Ricordate i tempi in cui i giornali, per anni, hanno campato sui sondaggi d’opinione?» è la domanda retorica di Cadalanu. «Stranamente adesso i sondaggi sono spariti. Perché la gente ha un briciolo di cervello in più di certi editorialisti con l’elmetto, gente che crede di essere D’Annunzio, ma che non manda i propri figli a combattere. I sondaggi dicono che nel Paese c’è molta prudenza sull’idea di accettare un’ipotesi bellicista, anche in questa decisione di parlare d’armi, di dare armi, come se fosse la cosa più normale del mondo. Siamo convinti che sia tranquillo? Domani potrebbe succedere che un aereo dell’Europa occidentale che porta le armi venga abbattuto dai russi: è un atto di guerra contro un paese della Nato? Un incidente può sempre succedere. Ma non sappiamo cosa succederà dopo». «Quello che chiedo alla stampa italiana è quel briciolo di onestà ed equilibrio per far capire cosa c’è in ballo» conclude. «Ribadire che la guerra è una soluzione sbagliata. Anzi, non è una soluzione: è il disastro».
Non si possono levare le voci di quelli che da anni parlano di pace
«L’informazione è una delle principali vittime collaterali di questo anno di guerra» afferma con decisione Nico Piro. «Abbiamo rinunciato al senso critico, abbiamo confuso le fonti: abbiamo dato dignità di fonte indipendente a fonti di parte. Sfido a guardare i titoli dei giornali sui caduti russi, frasi come “Oggi sono morti 824 russi”. Colpisce il dettaglio, e il fatto che, in fondo all’articolo, si legge che lo comunica il ministero della difesa di Kiev. Gli americani hanno dato una lezione quando hanno detto i caduti saranno circa 100mila e 100mila. Si danno invece i numeri sui caduti dell’altra parte, non dei propri».
«Da giornalisti abbiamo confuso tifo e cronaca» continua. «Si è parlato dell’arma che chiuderà il conflitto, di armi salvavita. Abbiamo completamente cancellato la memoria precedente. Ci può stare che nel primo mese aspettiamo la svolta, non guardiamo indietro. Ma un anno dopo avremmo avuto più volte modo di guardare indietro e ponderare quello che è stato detto prima, e poi quello che è effettivamente accaduto». «Gli opinionisti con l’elmetto sono i portatori del pensiero unico bellicista» aggiunge. «In Italia c’è la categoria dei tuttologi, che vogliono spiegare la guerra agli inviati di guerra, ai generali, vogliono spiegare persino al Papa come si fa il Papa. E lanciano uno stigma su chiunque parli di pace. Non è possibile che in Italia chiunque parli di pace sia considerato un filo-putiniano. È una sorta di concorso di bellezza, in cui sfilano solo quelli che accettano la sfida di essere più bellicisti degli altri. Ho l’impressione che si sia stabilita una no fly zone: non si possono levare le voci di quelli che da anni parlano di pace e di quelli che, nelle redazioni, avendo conosciuto la guerra parlano di pace». Ma c’è una domanda fondamentale che dobbiamo porci, detto che questo pensiero unico bellicista corrode la democrazia. «Se oggi non si può parlare di pace senza sentirci dire “traditore”, “collaborazionista”, “al soldo del nemico”, domani, di cosa non si potrà parlare?» si chiede il giornalista. Che si chiede anche se esprimendo solidarietà alle vittime di questa situazione, nel racconto di questi mesi, stiamo davvero facendo bene all’Ucraina sorvolando su qualsiasi aspetto critico che la riguardi. «Noi stiamo dicendo che è il baluardo della democrazia occidentale contro l’autarchia putiniana» riflette. «Stiamo davvero aiutando l’Ucraina quando si continua a celebrare l’eroe nazionale che era un collaborazionista della Gestapo? Siamo sicuri che la stiamo aiutando nel suo percorso per entrare nell’UE? C’è una responsabilità più a lungo termine dell’informazione che, rinunciando alla sua missione di essere senso critico, fa un danno alle speranze di pace e alle sofferenze del popolo ucraino e alla sua aspirazione ad essere una democrazia occidentale».
Un Maccartismo mediatico: domani a chi tocca?
«Questa guerra è la sconfitta dell’Europa». Inizia così, provocatoriamente, il suo intervento Gianandrea Gaiani. «È una guerra che si combatte contro l’Europa. Non abbiamo un caduto, non abbiamo sparato un colpo, ma siamo già sconfitti». La guerra, comunque vada, vedrà come vincitori sicuramente gli Stati Uniti, da cui siamo dipendenti. «Quando un anno e mezzo fa ci fu la fuga da Kabul, nella quale abbiamo seguito la partenza degli USA, si disse di creare una struttura di difesa europea autonoma, perché non possiamo continuare ad essere a ruota degli americani» continua Gaiani. «La guerra in Ucraina ha riportato l’Europa a valutare la sua struttura militare come strettamente dipendente, anzi integrata con la Nato e gli Stati Uniti. È chiaro che i grandi vincitori sono loro». Come tutte le guerre, anche questa è raccontata dopo aver definito il buono e il cattivo, che in guerra serve a semplificare. «Si tende a semplificare il messaggio, perché se il messaggio è semplice, allora io abbino lo slogan, e creo il manifesto della propaganda» spiega Gaiani. «I due principali azionisti della Nato, America e Inghilterra, lo hanno fatto. Ogni volta che parlano dell’aggressione russa all’Ucraina, così, è sempre “brutale” e “non provocata”. Ma non c’è una guerra che non sia brutale, e ogni guerra ha sempre delle cause che la provocano». In questo racconto semplificato sembrano cambiare anche quelle regole che dovrebbero essere sempre valide. «Recentemente una delegazione del governo lituano ha detto che le politiche di moderazione delle conversazioni su Facebook per cui non sono possibili eccessi verbali favoriscono la Russia e normalizzano la guerra, che rappresentano una irragionevole limitazione alla libertà d’espressione» ci racconta Gaiani. «Quindi secondo loro non posso insultare una persona perché è di colore, ma se è russo sì. Non mi interessa che sia russo: ma domani a chi tocca? Ho definito questo un Maccartismo mediatico».
Il direttore di Analisi Difesa ha dei dubbi anche su chi parla della lotta per difendere la democrazia che farebbe l’Ucraina. «Il governo ucraino ha chiuso 12 partiti di opposizione, forse perché è una guerra civile» argomenta. «Li ha accusati di essere filorussi. E se hai 12 partiti filorussi vuol dire che hai una bella fetta di persone che non è d’accordo con te. È una guerra civile, che va affrontata come tale. Nel 2020 il Global Democracy Index, metteva l’Ucraina al 79esimo posto tra i paesi democratici del mondo, un altro indice al 92esimo, dietro la Birmania. Già prima l’Ucraina non era quel faro di democrazia, e con la guerra ha perso ulteriormente posizioni perché è normale in guerra che le libertà vengano limitate». «Dobbiamo rifiutare il semplicismo, la semplificazione dei fatti complessi» conclude. «I fatti complessi vanno illustrati: ridurli a frasi da talk show, serve solo a creare propaganda. Che non funziona: i sondaggi ci dicono che la maggior parte degli italiani è contraria a un coinvolgimento in questa guerra. La propaganda non sta funzionando ed è una buona notizia in un momento come questo».
Una censura informale per chi propone soluzioni praticabili
Le conclusioni dell’incontro Ucraina: guerra e informazione spettano a Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo, che racconta un altro passaggio poco noto di questa storia. «È stato macinato dalla macchina dell’informazione un importante documento firmato nell’ottobre scorso da una cinquantina di ex diplomatici italiani, che nella loro analisi politica proponevano una road map per uscire dal conflitto» ha raccontato. «Questa road map prevedeva una tregua, un referendum per vedere la volontà della popolazione, la neutralità dell’Ucraina. Questa informazione è durata un paio di giorni ed è scomparsa dall’agenda dei politici. Un programma molto concreto e preciso su cui è calato il silenzio. C’è una sorta di censura informale che funziona a 360 gradi anche per chi propone delle soluzioni praticabili».