L’AQUILONE DI CLAUDIO, UN FILM PER CONOSCERE LE ATASSIE
Promosso da Aisa, è stato presentato ieri a Roma. Il regista Antonio Centomani e Carlo Rossetti, presidente onorario Aisa: quanto è difficile comunicare le malattie rare.
05 Aprile 2016
“L’aquilone di Claudio”, di Antonio Centomani, racconta la storia di una famiglia come tante che si trova ad affrontare una malattia sconosciuta. Andrea, infermiere, e Marina, titolare di un’agenzia di casting, hanno un figlio, Claudio, con la passione per gli aquiloni. Un semplice capogiro li preoccupa, li fa stare in guardia. Poi i casi si moltiplicano. E inizia un’odissea alla ricerca delle cause. Gli anni passano, tra medici che non capiscono e risposte che non arrivano. Fino alla diagnosi: Atassia di Friedrich.
“L’aquilone di Claudio” non è solo una storia, non è solo un film. È un potentissimo strumento di comunicazione sociale che AISA, Associazione italiana per la lotta alle sindromi atassiche, ha messo in campo per portare alla luce una di quelle malattie rare che, in quanto tali, sono poco note. È un film molto particolare, che, se da un lato affronta la malattia in modo diretto e chiaro, e in questo senso assolve al suo compito in modo perfetto, dall’altro cerca di alleggerire la tensione della storia con tocchi di favola, di poesia, diremmo di “realismo magico”.
Conoscere le atassie: l’incubo è non sapere
La clochard di Milena Vukotic, il circo, gli aquiloni, sono tutti elementi che portano la realtà in una dimensione ovattata che rende, per quanto possibile, più dolce quella che è una storia molto forte. La natura stessa delle sindromi atassiche, che è quella di una malattia degenerativa, porta la costruzione narrativa del film verso una continua discesa, a differenza dei classici film in cui la malattia, o l’incidente, arrivano, e da lì parte una catarsi e una rinascita.
L’incubo del protagonista, e della sua famiglia, oltre al peggiorare delle condizioni, è soprattutto il non sapere, il restare sospesi verso l’ignoto. E infatti i momenti di serenità arrivano non attraverso la guarigione, ma attraverso la conoscenza e l’accettazione della malattia, e di alcune cure che possono, se non fermare la degenerazione, rallentarla.
«Le sindromi atassiche sono una famiglia di malattie di origine genetica, che hanno come sintomo l’atassia», ci spiega Carlo Rossetti, presidente onorario Aisa, un concentrato di passione, energia e umanità, che abbiamo incontrato ieri alla prima assoluta del film. «È un sintomo comune anche alla sclerosi multipla, alla distrofia muscolare, al Parkinson: vuol dire disordine. Dove c’è disordine motorio c’è atassia. La nostra associazione si occupa principalmente di sindromi atassiche, di origine genetica, quelle che nel 2000 erano 20 tipi isolati, e oggi sono 114. Arriveremo a circa 200, man mano che la ricerca andrà avanti. Nel film compare l’Atassia di Friedrich, quella che si manifesta in età adolescenziale. Noi ci occupiamo di tutti i tipi di atassia, per cui siamo diventati un’associazione cross-disability. Malattie come queste portano anche diabete mellito, cecità, sordità, problemi di favella. Che fortunatamente nel mio caso non mi ha colpito». Proprio il fatto che le atassie siano di così tanti tipi rende il lavoro dell’associazione, e degli studiosi, molto complicato. «Sicuramente è più impegnativo, devi avere specialisti di tutti i tipi», ci conferma Rossetti. «Per quanto riguarda le atassie, gli specialisti sono gli stessi, a livello medico, mentre a livello psicologico ogni caso va trattato in maniera diversa. Per quanto riguarda l’organizzazione, Aisa è una cavalleria leggera, riusciamo ad attrarre molti specialisti. Nel 2000 AISA ha fondato Aisa Sport: il 30 aprile faremo una festa di primavera a Castel Gandolfo, dove vedrete persone amputate, paraplegiche, autistiche, che grazie allo sport riescono a fare un gran lavoro».
Il film nasce dall’esperienza di volontariato del regista, proprio con Aisa
Il film è un grande strumento di comunicazione sociale, dicevamo. Perché, per chi si occupa di malattie poco note, non è facile farsi spazio tra le mille istanze in campo oggi. «La comunicazione della disabilità sui mezzi di informazione fa acqua da tutte le parti», ci spiega Rossetti. «Come disse un noto giornalista, “La disabilità non paga, non fa vendere copie, non alza l’audience”. Quindi dobbiamo sempre associarla ad un evento. Ci inventiamo anche dei progetti, come “Le Strade di Adam”: siamo andati a visitare tutti i siti archeologici, che non sono visitabili dai disabili, acquistando delle speciali carrozzine da trekking, che servono per portare i disabili in cima alle montagne. In questo modo riusciamo a creare un evento. Un altro sono i mondiali di paracanoa. In questo modo, ogni volta che si parla dell’evento si parla anche di noi». «Trovare il proprio spazio è molto complicato», conferma Antonio Centomani, il regista del film. «Non è impossibile, noi in qualche modo ci siamo riusciti. Ma quando sei piccolo, è molto difficile farti spazio tra tantissime realtà. Ma noi continueremo a impegnarci fino a che l’opinione pubblica, anche quella dei mass media, darà la possibilità a tutti, piccoli, medi e grandi, di esistere e di farsi riconoscere».
Il film è un progetto che parte da molto lontano. «Antonio Centomani è un volontario Aisa da dieci anni», racconta Rossetti. «Paolo Zengara, di Napoli, uno dei coordinatori delle nostre campagne, gli ha proposto di fare un film. Antonio Centomani ha sposato l’idea, ha scritto la sceneggiatura a quattro mani con lui, e sette anni fa è stata premiata al Milano Film Festival, da Pupi Avati ed Ezio Greggio. Poi è stata molto dura trovare i finanziamenti, e finalmente due anni fa il progetto è partito». Come vi avevamo già raccontato in un’altra storia (Lo chiamavano Jeeg Robot), il fatto che un film nasca da un’esperienza di volontariato, e quindi dalla verità, è una sorta di garanzia. «Ho incontrato l’Aisa in una manifestazione e, come dico io, ci siamo fidanzati», ricorda Centomani. «All’epoca non conoscevo niente dell’associazione e della patologia, e mi sono chiesto perché. Facendo il regista televisivo di solito hai notizie di malattie di vario tipo, ma l’atassia non la conoscevo. Facevo una trasmissione per un network privato a Sanremo. Ho portato lì alcune di queste persone e da lì è iniziata la nostra opera per far conoscere le atassie, ho curato molti spot sociali. Anche se non è stato facile trovare gli spazi per mandarli in onda». Così, come potrete facilmente immaginare, non è stato facile trovare i fondi per produrre questo film. «Quando ho iniziato questa avventura avevo tante promesse. Che poi sono state disattese», spiega il regista. «Ma siamo caparbi, non ci arrendiamo. Ho trovato una casa farmaceutica, che non ha nulla a che fare con farmaci con l’atassia, che ha creduto in questo progetto e ci ha dato la possibilità di realizzarlo. L’abbiamo fatto con i fondi della mia casa di produzione, e con una serie di sponsor che ci hanno aiutato». “L’aquilone di Claudio” è stato acquistato dalla Rai per la messa in onda televisiva. Ma la produzione è in attesa di risposte per l’uscita in sala, e intanto l’associazione, dopo la prima, farà una serie di eventi in cui proietterà il film.
Ora la vittoria sarebbe uscire nelle sale
«La sceneggiatura è una storia vera, è basata sulla storia del fratello di Paolo Zengara, e su tanti aneddoti che sono capitati ad altre persone, come me», continua Rossetti. «Da ragazzi, molti dei tratti delle diverse malattie sono comuni».
«La sceneggiatura è fatta di vari aneddoti, situazioni che ho vissuto in prima persona e che mi hanno toccato», aggiunge Centomani. «È una storia che ha un filo unico, ma è la storia di tante famiglie. «Agli attori ho chiesto di leggere la storia e di capire esattamente cosa potesse provare una mamma, un papà, in un momento simile. C’è un paziente, ma c’è un disagio che si ripercuote su tutta la famiglia». In un cast importante (Irene Ferri e Massimo Poggio, i genitori, Fioretta Mari, Luigi Diberti, Milena Vukotic), spicca il giovane Federico Russo, che è Claudio da adolescente. «È arrivato con me sul set e ha capito subito che sarebbe stata un’esperienza importante», ci racconta il regista. «Ha studiato sui personaggi, ha voluto incontrare dei coetanei con questi problemi, e ha immediatamente recepito le difficoltà di queste persone. Mi hanno addirittura chiesto se fosse davvero un ragazzo disabile». In un cinema, quello italiano, che produce ormai solo commedie, e pensa che tutti noi abbiamo solo voglia di ridere, abbiamo chiesto a Centomani quale sarebbe la vittoria per un film come questo. «La vittoria sarebbe andare in sala», ci risponde. «Ma la vera vittoria sarebbe far sapere al vicino di casa, che esistono persone con questa disabilità».